Elenco dei film di Griffith

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Titolo Hancock
Anno 2008
Regista Peter Berg
Valutazione 5
Durata 92
Genere Azione
Classificazione
Trama Ha il nome del primo firmatario della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti, è nato a Miami, vive a Los Angeles, è alcolizzato, ha superpoteri che non riesce a gestire, è disprezzato dai malviventi e impopolare tra i cittadini, è John Hancock, in arte Hancock. Supereroe inadeguato e imperfetto, Hancock salva la vita a Ray Embrey, dirigente di una società di pubbliche relazioni. Padre affettuoso e marito premuroso, Ray si prende a cuore quel caso super-umano, investendo tempo ed energia per riabilitare l'uomo e riscattare l'eroe agli occhi della comunità. Sospendere l'alcol, radersi la barba, indossare un costume appropriato, atterrare morbido ed elegante sull'asfalto, lodare le forze dell'ordine, compiacere i passanti e soprattutto pagare col carcere i danni procurati ai beni pubblici, sono solo alcune delle buone-azioni che Hancock dovrà mettere in pratica per ottenere l'approvazione dei suoi cittadini. Ma certi vizi, come un passato amore, sono duri a morire.
C'è qualcosa di misterioso e affascinante nel primo terzo di Hancock: malinconia e stupore si allargano silenziosi nelle inquadrature a scoprire una Los Angeles assediata dalla malavita e un supereroe clochard abbandonato su una panchina. John Hancock, supereroe col vizio dell'alcol e dell'esagerazione, non ha il passato "narrativo" degli eroi (s)mascherati della cultura popolare americana (i comics). È il primo eroe di un fumetto che non uscirà mai. È la prima avventura di un supereroe che non ha mai praticato le strisce e non si è mai espresso in "nuvole". Hancock nasce al cinema. Eppure c'è qualcosa di comune, primordiale e riconoscibile tra l'unbreakable di Will Smith e gli altri supereroi. Sono uomini al di sopra di altri uomini, i cui eccezionali poteri diventano allo stesso tempo un dono e una maledizione, lo strumento di una missione divina e la fonte di un'angoscia infinita. Superman è un bambino abbandonato dai genitori su un pianeta sconosciuto, Spiderman acquisisce accidentalmente i suoi superpoteri senza potersene mai più liberare, gli X- Men vivono isolati a causa delle loro mutazioni, Hulk si trasforma in supereroe attraverso frequenti crisi "epilettiche" e Hancock nasce con un grande potere e due biglietti per il Frankenstein ammogliato di Boris Karloff.
Il sospetto del meraviglioso nello squallore della propria vita e l'evento straordinario in un contesto ordinario sono i temi più interessanti del melodrammasupereroico di Peter Berg, che nei rimanenti due terzi atterra rovinosamente come il supereroe sulla Città degli Angeli. Hancock diventa improvvisamente un altro film e poi un altro ancora, perdendo l'equilibrio narrativo fino a non riuscire più a rialzarsi. Tra agnizioni (la scoperta della sua vera identità) e patimenti "crepacuore" (l'amore ritrovato e perduto), la storia di Hancock si fa elementare e cede il passo ad uno stucchevole sentimentalismo: una "principessa" da salvare, che in virtù dei tempi che corrono non si limita a chiamare aiuto ma partecipa attivamente e (super)eroicamente all'azione. Un action minestrone dove il fracasso delle esplosioni e il contorno della vicenda (incarnato da Charlize Theron) diventano le sole cose fondamentali. E il super Hancock-Smith si adegua.
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Titolo Hannibal Lecter - Le origini del male
Anno 2007
Regista Peter Webber
Valutazione 6
Durata 117
Genere Drammatico
Classificazione
Trama In Lituania, un giovane ragazzo di nome Hannibal cresce in un orfanotrofio: durante la seconda guerra mondiale i nazisti hanno infatti ucciso i suoi genitori. Riesce a fuggire e a raggiungere Parigi, dove si ritrova con la vedova di suo zio, una bellissima donna giapponese. Tutte le violenze subite nel passato riaffiorano continuamente in lui che, iniziando a studiare medicina, comincia a indagare nelle pieghe dell’animo umano. E la sua violenza inizierà a strabordare.
Firmato da Peter Webber, il film, prequel sullo psichiatra antropofago più famoso della celluloide, si assume il difficile compito di spiegare come Hannibal si trasformò appunto in The Cannibal, diventando uno dei personaggi più coinvolgenti, tanto malvagio quanto brillante, del genere thriller. E il libro è firmato ancora una volta da Robert Harris, che arriva così al capitolo numero quattro della saga: dopo Il silenzio degli innocenti, Hannibal e Red Dragon arriva questa conturbante pellicola a fare luce sulle origini del male, a fare spazio nell’infanzia e nell’adolescenza di Lecter. Il risultato è un film adrenalinico e dal ritmo sostenuto, che riesce perfettamente nell’intento di mescolare saggiamente dosi di suspence e horror, dramma e tragedia. Webber, che già aveva dimostrato il suo talento visivo, fatto di dettagli perturbanti e inquadrature ariose, in La ragazza con l’orecchino di perla firma una pellicola che ben riesce a incentrare tutta la sua potenza nel personaggio di Hannibal, qui interpretato dalla new entry Gaspard Ulliel, giovane dal volto inquietante, aspro e dissonante, che forse subisce il peso del paragone con Anthony Hopkins, ma che riesce perfettamente a interpretarne la giovinezza. Al suo fianco, nei panni della giapponese Lady Murasak, la sempre misteriosa ed equilibrata attrice cinese Gong Li, che ancora una volta dimostra la sua straordinaria abilità interpretativa. A coronare il tutto una fotografia a cui è stato affidato l’arduo compito di restituire atmosfere cupe e di tensione, una fotografia che riesce a farsi ora ombrosa e sgranata ora dai colori melmosi e macabri. Un thriller che è ingranaggio perfetto e completo, una storia che riesce a tenere davvero con il fiato sospeso.
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Titolo Happy Feet
Anno 2006
Regista George Miller (II)
Valutazione 6
Durata 108
Genere Animazione
Classificazione
Trama Mambo è un pinguino imperatore diverso dagli altri: è completamente stonato, mentre tutto il resto del gruppo sa cantare perfettamente. Mambo ha però un altro talento: danza meglio di Fred Astaire, anche se questa sua peculiare abilità lo rende inviso a Noah l'anziano, che lo scaccia dalla comunità. Solo, ma con nuovi amici trovati lungo le sue peregrinazioni, Mambo riuscirà a riscattarsi e salvare i suoi simili, proprio grazie all'abilità nel ballo, ma non prima di aver vissuto emozionanti e pericolose avventure.
Tecnicamente, il film strabilia: oramai il cinema digitale ha varcato il confine che lo separava dal fotorealismo ed Happy Feet lo dimostra chiaramente, specie per quanto concerne i fondali che appaiono veri, tangibili e decisamente...freddi. Un tale prodigio tecnico però, non basterebbe se dietro non ci fosse una storia convincente ed è qui che Happy Feet sorprende, cominciando come romanzo di formazione, trasformandosi in musical, in commedia e chiudendosi come un vero film d'avventura.
Strepitosa, e non avrebbe potuto essere altrimenti, la colonna sonora che propone classici evergreen e moltissimi generi musicali diversi tra loro. Tra gli interpreti, tutti convincenti, a dominare sul gruppo sono Robin Williams, che caratterizza da par suo un folle pinguino in salsa latinoamericana e la bravissima Brittany Murphy che dimostra insospettabili doti vocali, esibendosi in un paio di assoli da lasciare a bocca, pardon, becco, aperto. Ottima, in quest'ottica, la scelta del distributore italiano di lasciare le canzoni in originale. Nonostante qualche lungaggine e un certo eccesso di retorica e ingenuo ottimismo, Happy Feet è comunque un film riuscito e porta una boccata di aria fresca al genere dell'animazione digitale, che sembrava già aver esaurito le idee: i pinguini ormai, veri o creati al computer, sono diventati la specie dominante al cinema...
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Titolo Happy Feet 2 in 3D
Anno 2011
Regista George Miller (II)
Valutazione 6
Durata 100
Genere Animazione
Classificazione
Trama Mambo è cresciuto a pesci e tip tap, ha sposato Gloria e adesso è padre apprensivo di Erik, un cucciolo che sogna due ali per volare e una voce per cantare. Goffo e maldestro, Erik è diverso dagli altri pinguini, non canta, non balla e non sembra trovare il suo posto nel mondo. Fuggito da casa incontra Sven, un pinguino molto speciale, col becco grosso e due ali adatte al volo. Predicatore cialtrone di mistica e di fumo, Sven colpisce la fantasia di Erik e ne diventa figura di riferimento. Raggiunto da Mambo, Erik si lascia convincere a malincuore a tornare indietro. Il mondo intorno a loro intanto si sta trasformando, l'innalzamento delle temperature e lo scioglimento dei ghiacciai hanno compromesso la sicurezza dei pinguini imperiali. Sulla strada verso casa, Erik troverà la sua canzone e Mambo imparerà il mestiere del genitore, salvando creativamente Gloria e tutti i suoi compagni. Lo aiuteranno nell'impresa i colossali elefanti marini e i minuscoli krill.
Cinque anni e un Oscar fa, Mambo era un piccolo pinguino col vizio del tip tap e alla ricerca della propria iniziazione alla vita. Ballerino in un mondo di cantanti virtuosi, Mambo cresce e diventa padre di un pinguino altrettanto 'diverso' ma altrettanto ostinato a realizzarsi. A 'formare' il giovane Erik ci pensa ancora una volta George Miller, produttore, sceneggiatore e regista di animali che pensano e agiscono come persone. Come fu per Babe, maialino coraggioso che voleva diventare cane pastore, per l'anatra che si sognava gallo, per il pinguino che studiava da ballerino, allo stesso modo Erik aderisce alla poetica dell'autore australiano 'differenziandosi' e divergendo dalla 'legge' del gruppo di appartenenza. Ma se per Mambo la danza era un'inclinazione naturale e irrinunciabile dentro una società gerarchizzata dove il suo cambiamento diventerà strumento di riconoscimento, per suo figlio le cose sembrano andare diversamente. Erik vuole modificare la propria natura e vive la propria 'pinguinità' come un limite. Ma davvero senza ali non si può volare? Più adolescenziale che infantile, 'il ragazzo' disobbedisce tenacemente. La sua indisciplinatezza sfida le competenze paterne e cerca altrove, in un 'pulcinella' (di mare) qualsiasi, l'esempio da imitare. Saranno l'imprevedibilità della vita, l'onda anomala di uno tzunami e i rovesci di un terremoto a ravvedere Erik e a invitarlo a guardare con sguardo indulgente e finalmente ammirato quel genitore impacciato ma fortemente impegnato a diventare un padre migliore. Diversamente dal passato i papà sono più accudenti e coinvolti nell'esistenza dei propri figli al punto da diventare argomento eletto dell'animazione, che 'disegna' sempre più spesso padri distintivi e amorevoli.
Insieme a Cattivissimo me e Kung Fu Panda, Happy Feet 2 mette in schermo padri adottivi o naturali che producono valori, pongono limiti e insegnano alla propria prole ad affrontare la vita adulta, abbinando alla funzione normativa quella affettiva. Se la Disney con Il Re leone introdusse per prima la 'presenza' paterna, Mufasa, dominante e democratico, resta un genitore incoerente e 'interrotto'. Mambo è padre di un altro 'inverno', di un cambiamento sociale, di una rivoluzione culturale, di una diversa specie, naturalmente portata alle attività di accudimento primario dell'infanzia. 'Covare' il suo Erik ha fatto di Mambo un padre materno che ha rinnovato il concetto tradizionale di virilità e autorevolezza. Il potenziamento della figura paterna non ha depotenziato comunque quella materna di Gloria, madre affettuosa e consapevole dei rispettivi ruoli. Ancora una volta Miller sposa la musica e realizza un ambizioso progetto danzato, riconfermando ecologismo, diversità e tridimensionalità. Tra rock e rap, pop e hip hop, jodel e melodramma (lirico), Erik intonerà la romanza di Puccini ("E lucevan le stelle") facendo rimpiangere la metrica perfetta di Giacosa e Illica, Happy Feet 2 canta e coreografa con meno incisività il palcoscenico antartico. Spettacolare nella profondità dell'oceano e del 3D è invece il mondo di sotto, 'battuto' dai gregari Will e Bill, krill leggiadri che, sviluppando una storia parallela alla maniera di Scrat, si improvvisano predatori e risalgono la catena alimentare. Perché nelle produzioni 'polari' di Miller i pinguini possono volare alto e gli invertebrati eseguire coreografie felpate che 'spaccano'.
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Titolo Harry Potter e i doni della morte - Parte I
Anno 2010
Regista David Yates
Valutazione 7
Durata 146
Genere Fantastico
Classificazione
Trama Harry Potter è in fuga, Hogwarts è ormai caduta nelle mani di Voldemort e così anche il Ministero della Magia. La morte di Silente ha lasciato un vuoto che è stato colmato dalle forze oscure e Harry si sente abbandonato. Così non è però e se ne accorgerà alla lettura del testamento, sia ad Harry, che a Ron che ad Hermione è stato infatti lasciato in eredità un oggetto a suo modo cruciale per la resistenza. Non è però ancora il momento delle grandi battaglie quanto quello della fuga alla ricerca degli horcrux, oggetti o esseri viventi contenenti frammenti dell'anima di Voldemort. Solo a metà del suo percorso però Harry si renderà conto che anche il signore oscuro è alla ricerca di un oggetto ugualmente cruciale che tuttavia non sono gli horcrux.
Di episodio in episodio la saga cinematografica di Harry Potter accumula incassi, nonostante sia sempre più difficile da seguire. Aumentano i riferimenti, i personaggi, gli oggetti, i luoghi e la storia pregressa, rendendo più difficile tenere le fila di tutto per lo spettatore digiuno di romanzi che segue le avventure solo una volta l'anno. Tutto ciò non sembra interessare alla produzione, come del resto non sembra interessare la qualità generale del prodotto confezionato. Dopo l'avvicendamento di tanti registi importanti e abili (Columbus, Cuaron e Newell), la Warner conferma per la terza volta il meno adeguato David Yates (il quale chiuderà anche la saga con il prossimo e ultimo film girato assieme a questo).
Harry Potter e i doni della morte soffre però anche di un altro problema: essere il primo film della saga tratto da una parte di un romanzo. Fino ad ora ad ogni libro era corrisposto un film, con tutto il corollario di polemiche da parte della base dei fan che vorrebbero rivivere in sala ogni singola pagina della Rowling. Ora invece l'idea di tradurre l'ultimo libro in due film arriva a raddoppiare la monetizzazione con la giustificazione morale di accontentare i fan, il risultato tuttavia è un film lungo più di due ore che manca di quelle caratteristiche che erano la firma di ogni avventura potteriana al cinema: umorismo, mistero e azione. Questo settimo film è la parte più on the road di una saga tutta casa e Hogwarts ma anche quella con il ritmo più controllato, tutta silenzi espressivi e tempi dilatati.
L'idea sarebbe di comunicare l'incertezza, i dubbi e le paure del personaggio attraverso l'uso di una messa in scena apparentemente meno controllata (c'è moltissima più macchina a mano del solito) e lasciando che le molte location in esterni parlino dell'interiorità dei personaggi in fuga. Paesaggi e silenzi esteriori che riflettono vuoti interiori, spiazzando spettatori abituati ad una routine scenografica rodata (le case, le aule della scuola, la foresta intorno) con laghi immensi, foreste innevate, autostrade in rovina e boschi d'inverno ripresi come luoghi tetri di un'anima inquieta. Per riuscire in questa impresa cinematografica di paesaggi che definiscono personaggi però forse era necessaria la mano di un regista più abile a mescolare i toni e gestire tempi dilatati.
Voldemort e Harry perdono le loro bacchette senza perdere la loro magia, si emancipano dai propri strumenti in vista di un confronto che sarà personale prima che magico mentre l'Horcrux (ovvero un'epifania del signore oscuro) corrompe e incattivisce i tre amici che lo portano in fuga come fosse l'Unico Anello. Sono tutti stimoli però che il film non sembra voler recepire per lasciare spazio ai dilemmi interiori di un eroe che ormai affascina ben poco.
Eccezione che conferma il giudizio è la sequenza della favola dei doni della morte, realizzata con un'animazione CG altamente stilizzata, e dotata di un fascino oscuro e misterioso che ricorda quello dei primi episodi cinematografici di Harry Potter e che si sperava di ritrovare in questi conclusivi.
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Titolo Harry Potter e i doni della morte - Parte II
Anno 2011
Regista David Yates
Valutazione 7
Durata 130
Genere Fantastico
Classificazione
Trama Occupati Hogwarts e il mondo della magia, Voldemort e i Mangiamorte hanno ormai un solo obiettivo: disperdere l’Esercito di Silente e uccidere Harry Potter, alla ricerca spasmodica degli ultimi Horcrux. Individuati con l’immancabile aiuto di Ron e Hermione gli oggetti e i soggetti viventi che contengono l’anima frantumata e separata dal corpo del Signore Oscuro, i tre ragazzi hanno soltanto bisogno di tempo per raggiungere quelle schegge di anima e farne scempio. Ripiegati a Hogwarts, presieduta da Severus Piton e difesa da dissennati dissennatori, Harry e compagni vengono accolti trionfalmente da Neville Paciock e il suo esercito di dissidenti armati di bacchetta e coraggio, il coraggio di esporsi al dolore e alla morte dimenticandosi della propria salvezza in nome di un bene superiore. Nella furia della battaglia Harry scoprirà che tra il bianco di Silente e il nero di Piton esiste una zona grigia e una lacrima rivelatrice di ben altre verità. Recatosi al Pensatoio e versato il pianto e i ricordi di Piton, Harry saprà finalmente cosa fare per annullare Voldemort. Recatosi nella Foresta Proibita per affrontarlo, il giovane mago abbraccerà la possibilità della morte, guadagnando la salvezza e il futuro. Quello magico e quello babbano.
È da sempre il duello la soluzione alle tensioni create dalla narrazione e all’antitesi dei valori proposti. Lo sa bene David Yates, che alla sua quarta realizzazione punta l’obiettivo su quell’atto decisivo dell’intreccio, sullo scontro fisico tra l’eroe e il suo opponente schierati all’interno delle rovine di Hogwarts, contenitore e palcoscenico dell’epilogo. Spedendo al suolo Lord Voldemort come un volgare villain, Harry, in piedi contro un cielo grigio e spento dal 3D, raccoglie il valore in gioco nello scontro. Valore anticipato nella prima parte dei doni della morte, che dichiarava l’analogia con la logica del fascismo e l’ascesa del Nazismo. Il progetto di purificazione razziale di Voldemort, drammaticamente affine all’ideologia razzista hitleriana, ha sterminato senza pietà i mezzosangue, costringendo i sopravvissuti alla clandestinità. Sacrificata letteralmente la generazione dei padri, a resistere sulla scena e nel secondo atto troviamo i figli, lontani dall’egocentrismo dell’infanzia, emancipati dal disordine dell’adolescenza e abili a 'sbarcare’ sulle sponde di Hogwarts con un’arma più potente di un incantesimo: la capacità di amare e di riconoscere l’altro nella sua singolarità. Portatori sani di un’idea di giustizia e di società giusta e aperta, dove convivere e contaminarsi. Di quel mondo, avviato da Albus Silente e minacciato costantemente da Tom Riddle, Harry è l’eroe dell’apertura, colui che porta in sé proprio ciò contro cui combatte, perché la Rowling non si limita a metterli l’uno contro l’altro ma, forzando la geometria frontale del duello, li mette l’uno nell’altro.
Insieme a Voldemort la saga di Harry Potter esala l’ultimo respiro e lascia orfani una messe inestimabile di spettatori che per dieci anni hanno visto crescere, amare, lottare e invecchiare il maghetto di Privet Drive. Iniziato all’età adulta nel tempo di sette libri e otto film, il sempre uguale Harry Potter è stato affidato a Daniel Radcliffe, che tra azioni magiche e prodigi naturali, ha trovato il tempo di essere attore nei teatri e nel mondo normale dei babbani. Con sacrificio, fedeltà e intraprendenza lo hanno accompagnato Rupert Grint (Ron) e Emma Watson (Hermione), braccati, marchiati e torturati ma sempre pronti a sbrigarsela come potevano dentro camere segrete, foreste proibite, banche o paioli magici. Defezionato da Spielberg, impostato dallo sguardo di Chris Columbus, veterano di film con bambini protagonisti, (pro)seguito dal sentimento dark del messicano Alfonso Cuarón, cresciuto coi turbamenti adolescenziali di Mike Newell e aggiudicato fino all’ultimo respiro e all’ultimo mago a David Yates, Harry Potter al cinema si è (purtroppo) limitato a 'fotocopiare’ i celebri romanzi, eccedendo nella tecnica, nelle convenzioni, negli effetti e dimenticando troppo spesso di produrre la magia. Confezioni sempre troppo lunghe e quasi nulla impegnate nella costruzione dei personaggi, quelle biografie ideali magnificamente immaginate per ognuno di loro dalla Rowling. A dare loro la vita ci hanno pensato tuttavia gli attori, che la scrittrice ha preteso inglesi. Sono loro i produttori di incantesimi che hanno riempito le sale e incantato le masse babbane. Su tutti Alan Rickman, signore di tempeste emotive concentrate in una lacrima che rivela commossa il rovescio del male.
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Titolo Harry Potter e il calice di fuoco
Anno 2005
Regista Mike Newell
Valutazione 7
Durata 153
Genere Fantastico
Classificazione
Trama Hogwarts anno quarto. Harry Potter e i suoi amici Ron ed Hermione stanno crescendo e con loro crescono le consapevolezze e i dubbi.
È questo il perno attorno a cui ruota il film di Mike Newell in perfetto equilibrio tra dramma e commedia. Perché il dolore pesa terribilmente sulle spalle di questo Eletto che vorrebbe essere solo un mago "normale" e tutte le assenze del passato (i genitori morti) e le incombenze del futuro si fanno pressanti. La tensione non è quindi tanto affidata ai draghi o alle prove da superare quanto a una sofferenza interiore che non ha bisogno di attendere l'evidenza dell'incontro con Voldemort per divenire percepibile. Ma Newell (sempre più apprezzabile l'idea di cambiare regista per ogni film) è però abilissimo nel farcela "sentire" come tema portante distraendo però la nostra attenzione grazie alle pagine della festa da ballo che la Rowling gli offre e che lui sa giostrare con la sapienza consumata di un realizzatore di commedie brillanti.
I piccoli slittamenti del cuore, le rivalità e i tremori dell'inizio dell'adolescenza diventano materia per un'ampia parentesi di alleggerimento. Che non basta però a distrarci dall'esigenza (divenuta per Harry ormai imprescindibile) di distinguere la realtà dall'apparenza, il bene da ciò che bene non è. Se gli amici restano tali nonostante le incomprensioni, il mondo intorno a lui si sta facendo sempre più "adulto" e, quindi, sempre più ambiguo e temibile.
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Titolo Harry Potter e il principe mezzosangue
Anno 2009
Regista David Yates
Valutazione 5
Durata 153
Genere Fantastico
Classificazione
Trama Tempi oscuri minacciano il mondo dei maghi e quello dei babbani. Dopo il ritorno di Voldemort e la tragica morte di Sirius Black, Harry trova conforto, guida e consolazione nell'abbraccio di Silente, che lo conduce ad Hogwarts e lo invita alla condivisione dei suoi ricordi. Nel Pensatoio Albus filtra per Harry l'infanzia di Tom Ridlle in cerca di un indizio che possa aiutarli a distruggerlo per sempre. La chiave della loro indagine è però custodita e mai rivelata nella memoria di Horace Lumacorno, professore in pensione di Pozioni col vizio dello studente celebre. L'allettante possibilità di insegnare all'Eletto, lo conduce di nuovo in cattedra e lo persuade finalmente a rivelare il segreto dell'Oscuro Signore: l'anima di Voldemort, straziata in sette parti dall'orrore compiuto, è conservata e protetta in altrettanti oggetti attraverso un complicato incantesimo di magia nera avanzata. Silente e Potter lasciano Hogwarts alla ricerca del medaglione (uno degli Horcrux) che custodisce un frammento dello spirito scellerato del Serpeverde. Nei corridoi della scuola intanto un altro Eletto, Draco Malfoy, è determinato a lasciare un segno (oscuro) nella storia.
Soltanto un passo e un film diviso in due (Harry Potter e i doni della morte) separano il celebre mago di Privet Drive dall'epilogo e dal confronto finale con Colui che è ormai nominabile, Colui che era il più bello e potente degli angeli, appassionante variazione del mito di Lucifero, che ha ceduto al lato oscuro della forza e della magia per diventare Lord Voldemort, un cattivo senza riscatto. Assenza materializzata in un teschio colossale e spaventevole, il Signore dei Mangiamorte non è protagonista nella nuova avventura cinematografica di Harry Potter, al centro della "seconda volta" di David Yates ci sono due eroi, Potter e Silente, uno trionfante e uno soccombente. Albus Silente, il più grande mago dell'era moderna e preside di Hogwarts, riveste nell'episodio del principe mezzo sangue un ruolo genitoriale e di rilievo, è il suo abbraccio ad Harry ad aprire il film ed è il profilo insistito del suo corpo dipartito a chiuderlo. Grande Esorcista, Stregone Capo e Mago leggendario, Silente è idealmente prossimo al Gandalf del Signore degli Anelli e all'Obi-Wan Kenobi di Guerre stellari, è colui che riconosce nel piccolo Harry Potter il segno della forza e lo riscatta dalla sua condizione (per metà) babbana, è colui ancora che favorisce e sovrintende la sua formazione e inevitabilmente è colui che compirà il percorso sacrificale e verrà sostituito dall'allievo.
La struttura del racconto è (sempre) estremamente elementare: i cattivi di turno, i Mangiamorte, portano il caos nel regno degli uomini e in quello dei maghi, costringendo i prodi eroi a combattere di nuovo con tutte le loro forze e tutta la loro magia per riportare l'armonia e separare per sempre la luce dalle tenebre. Ma da copione e da romanzo, la pace, il benessere e la riconquista del paradiso sono rimandate alla prossima puntata, perché Silente "perderà" la bacchetta, indebolito dalla ricerca degli Horcrux, e soccomberà al maleficio di un ambiguo traditore. Con un mago senza magia, Hogwarts è senza un "re", è luogo vulnerabile e per la prima volta espugnabile. Inizia allora da una perdita incolmabile e dalle torreggianti torri della scuola la ricerca di ciò che è perso e di ciò che deve essere distrutto, condotta da Harry e fedeli compagni fino ai limiti dei due mondi.
Se, possiamo scommetterci, Harry Potter e il principe mezzo sangue coglierà il bersaglio e renderà felici gli spettatori ansiosi di rileggere per immagini personaggi e avventure familiari, il sesto adattamento del fantasioso pastiche della Rowling non trova questa volta le felici invenzioni allestite nel precedente (Harry Potter e l'ordine della Fenice) e appare un riflesso impallidito dell'universo letterario di Potter. Un plauso va invece tributato ai tre protagonisti, Daniel Radcliffe, Rupert Grint e Emma Watson, competenti nell'esibire le loro identità mutate e affrancate dall'infanzia e dalla temperanza. Sorgente di fascinazione è pure la performance di Jim Broadbent, attore inglese, ironicamente felpato nell'abitare il film in cui vive e nel nobilitare la pusillanimità del professor Lumacorno. Bevete fortuna liquida e sollevate le bacchette, il male avanza e la magia continua.
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Titolo Harry Potter e la pietra filosofale
Anno 2001
Regista Chris Columbus
Valutazione 7
Durata 151
Genere Fantastico
Classificazione
Trama Harry Potter vive con gli zii e il cuginetto sin dalla più tenera età dopo la morte dei suoi genitori. I parenti non lo amano per nulla. Harry sta ormai per compiere undici anni e viene guardato male anche per alcune sue capacità 'magiche'. Che sono effettive perché Harry è figlio di maghi e comincia a ricevere lettere, regolarmente sequestrate, portate da gufi. Dovrà giungere il gigantesco Hagrid a recapitargliene personalmente una perché possa apprendere di essere stato ammesso a frequentare la Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts. Gli zii a questo punto non possono far più nulla e Harry raggiunge la Scuola dove apprende che il suo nome è già noto e dove scoprirà di avere naturali doti magiche. Questo non è che l'inizio delle sue avventure ispirate al famosissimo e vendutissimo libro di J.K. Rowling che da madre single e senza una sterlina si è ritrovata ad essere una delle donne più ricche della Gran Bretagna. Il film mantiene più di quel che pareva promettere. Chris Columbus (nel suo carnet, tra gli altri, Mamma ho perso l'aereo) ha saputo evitare l'ansia da effetto speciale (anche se parte della stampa d'Oltreoceano ha già fatto le sue brave ironie) per puntare tutto sulla storia che segue, fatti i debiti tagli e una variante sul prologo, lo sviluppo del romanzo. Circondandosi di ottimi attori ha ricostruito un clima Anni Sessanta senza però mai dimenticare gli spettatori (dai 6 ai 60 anni) a cui si rivolgeva. Tanto che si giunge alla morale della favola dopo due ore e mezza di film ancora in grado di intendere e di volere. Cioè non frastornati da una colonna sonora pompata o da mirabilie tecnologiche ma piacevolmente coinvolti da una storia la cui 'magia' sta nel raccontare in modo semplice del (fortunatamente non ancora annullato) bisogno di fantasia della mente umana.
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Titolo Heidi diventa principessa
Anno 1977
Regista Yuji Endo, Nobutaka Nishizawa
Valutazione 7
Durata
Genere Animation | Drama | Family | Romance
Classificazione
Trama When a king gets lost during a hunting trip, he is found by an old woman who tells him her daughter will be able to show him the way out of the woods if he satisfies her wishes. The king finds the woman to be remarkably beautiful and agrees to her request of marrying him. However, the king has seven children and the new queen soon becomes jealous as he often leaves to visit them at their secret home in the woods. With the help of a magic yarn ball, the new queen is led to the hidden tree-house where the king's daughter Elisa and his six sons live. They are excited about meeting their new mother and run to greet her, but as soon as they get close, the new queen throws white sheets over them turning them to swans, all but Elisa who manages to get away. Now that they've been turned into swans, Elisa can only see her brothers at night, when the enchantment breaks, and when spring comes, they'll have to migrate to a colder climate. Before leaving, they tell Elisa of the one way she alone could break the spell. She would have to collect nettle and spin it into thread with which to make six shirts, one for each of her brothers, for six years. During this time, she would have to remain silent, for if she were to speak a single word or make the smallest sound, they would all die instantly.

Written by
Frederick Irizarry
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Titolo Hellboy - The Golden Army
Anno 2008
Regista Guillermo Del Toro
Valutazione 6
Durata 110
Genere Azione
Classificazione
Trama All'interno del Dipartimento per la Ricerca sul Paranormale e la Difesa c'è aria di maretta. Il muscoloso detective Hellboy, per gli amici Red, è vittima tanto del suo capo Manning, che vorrebbe impedirgli di mettersi in mostra davanti agli umani, tanto della sua pirotecnica fidanzata Liz, che sembra avere un segreto e non volerglielo rivelare. Ma un pericolo molto più grande incombe sul B.P.R.D. e sul mondo intero: il principe Nuada del mondo delle tenebre, stanco di obbedire da secoli all'umanità, ha risvegliato un esercito leggendario di macchine assassine al fine di annientarla. A Hellboy e al suo indistruttibile pugno di pietra il compito di fermarlo.
Chi, nel 2004, aveva osannato il talento di Guillermo Del Toro nel portare sullo schermo l'eroe del fumetto creato da Mike Mignola, deve ricredersi: Hellboy si riduce ad una buona presentazione del personaggio di fronte ad secondo capitolo, Hellboy - The Golden Army, che brilla davvero nel buio della sala.
Rinunciando alla trama pseudo storica che ingarbugliava il primo tomo, e con essa ad una buona dose di fedeltà al fumetto, il regista messicano si diverte qui ad approfondire le relazioni tra i personaggi, raggiungendo nei dialoghi dei duetti da antologia, tanto tra Red e Abe, il mutante acquatico, quanto tra i due super "piccioncini". Ugualmente, la distanza tra i due mondi, quello "normale" e quello che non lo è affatto, si riduce al punto da prevedere dei "passaggi" che coincidono con alcune tra le sequenze visivamente più spettacolari del film (il mercato dei Trolls, l'Irlanda del Nord).
Sebbene la storia in sé non si discosti dalla solita direttrice per cui un rappresentante del mondo occulto dichiara guerra a quello emerso mettendo in difficoltà il protagonista, diviso tra i due mondi e spesso inviso ad entrambi, in questo secondo episodio il tema dell'eros e del suo legame drammatico e inscindibile con thanatos fornisce coerenza narrativa, poiché si declina tra il giustiziere rosso e Liz ma anche tra Abe e Nuala e tra i due pallidi gemelli delle tenebre.
In tutti i casi, è sul piano dei personaggi che Hellboy dà il meglio di sé. Vien da dire che è dai tempi di Guerre Stellari, di Ian Solo, della principessa Leila e di Chewbecca, che non si vedeva un trio come quello di Red, Liz e Abraham (alias Ron Perlman, Selma Blair e Doug Jones); e non sono da meno i secondari, specie la new entry ectoplasmica Johann Krauss e l'apparizione dell'Angelo della Morte, messaggero di una misteriosa profezia che potrebbe allungare la sua ombra sul futuro cinematografico dei nostri eroi.
Approfittando del fatto che "Hellboy" è un fumetto recente, privo della pesante tradizione di altri colleghi a strisce, Del Toro imprime a fuoco sulla serie in fieri il suo marchio di fabbrica e tinge con gusto il bianco e nero carico e gotico di Mignola con i suoi colori altrettanto carichi e "fantasyosi".
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Titolo Herbie - Il supermaggiolino
Anno 2005
Regista Angela Robinson
Valutazione 5
Durata 101
Genere Commedia
Classificazione
Trama Dopo parecchi anni Disney torna a fare davvero film per famiglie, rispolverando un brand molto famoso negli anni '70. 35 anni sono passati invano sul fronte della sceneggiatura, che è sempre la stessa ma in fondo perché cambiarla? La formula funziona sempre: un maggiolino simpatico e credibile nella sua umanità, corse, qualche effetto speciale non poi così speciale, comicità slapstick e tanti buoni sentimenti. L'eroina di turno, la teen-star Lindsey Lohan (anch'essa passata dal gommista...) è perfetta per il ruolo, i comprimari sono abbastanza insulsi da farla risaltare sulla scena, i cinefili potrebbero restare basiti nel vedere la china che ha preso la carriera di due grandi come Dillon e Keaton, ma tant'è: per una volta ad annoiarsi saranno i grandi ed è giusto così.

Il film è il quinto episodio della serie di grande successo che ha avuto inizio nel 1969 con Un Maggiolino Tutto Matto, seguito da Herbie Maggiolino Sempre Piu' Matto (1974), Herbie Il Rally Di Montecarlo (1977), e Herbie Sbarca in Messico (1980).
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Titolo Herbie il maggiolino sempre più matto
Anno
Regista Robert Stevenson
Valutazione 5
Durata
Genere
Classificazione
Trama Un costruttore privo di scrupoli vuole sfrattare una vecchietta dalla sua casa per erigere un grattacielo. Per ostacolare tale iniziativa la nipote dell'anziana signora, un avvocato che si occupa della causa e una macchina con un'anima umana, dichiarano guerra al re del cemento.
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Titolo Hercules
Anno 1997
Regista John Musker, Ron Clements
Valutazione 8
Durata 92
Genere Animazione
Classificazione
Trama Figlio di Zeus-Giove e di Era-Giunone, Hercules neonato è rapito da Pena e Panico, buffi accoliti di Ade-Plutone, dio dell'oltretomba che vuole spodestare il fratello Zeus. Abbandonato come Edipo, è allevato come un mortale da una coppia di coniugi e, non riuscendo a controllare la propria forza, combina molti disastri, finché, cresciuto, dimostra di aver diritto a rientrare nell'Olimpo compiendo imprese eroiche e salvando i divini genitori dall'attacco dei Titani, anch'essi strumenti del malvagio Ade. 35° cartoon di lungometraggio della Disney e 4° del tandem Musker-Clements, è ricco di trovate comiche, di ritmo agile, rallegrato da intermezzi cantati e danzati (musiche di Alan Menken e parole di David Zippel), ma patisce del gigantismo iperbolico degli effetti speciali. A livello grafico si sente l'apporto del disegnatore britannico Gerald Scarfe che si è ispirato alle antiche anfore greche ed è responsabile dell'apocalittica parte finale. Come il solito, i personaggi più convenzionali sono gli umani e gli dei dell'Olimpo, involgariti da un disegno "giapponese". Distribuzione delle voci italiane: Ercole/Raoul Bova; Filottete/Giancarlo Magalli; Ade/Massimo Venturiello; Megara/Veronica Pivetti; Pena e Panico/Zuzzurro e Gaspare.
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Titolo High School Musical 2
Anno 2007
Regista Kenny Ortega
Valutazione 7
Durata
Genere Commedia
Classificazione
Trama Alla East High School ha suonato l'ultima campanella dell'anno scolastico. I ragazzi devono trovare un lavoro estivo e quando a Troy viene offerto un impiego presso un esclusivo club sportivo, accetta a patto che anche i suoi amici vengano presi. Il capitano dei Wildcats non sa però che il Lava Springs è di proprietà della famiglia di Sharpay e che la compagna di scuola ha personalmente richiesto il suo ingaggio per poter passare l'estate con lui. All'arrivo di tutta la banda e alla vista di Gabriella, Sharpay decide di rendere i giorni dei Wildcats al club insostenibili, sperando di poter rimanere da sola con Troy. Ma le cose non andranno come pianificato.
Fuori dal contesto scolastico i protagonisti di High School Musical devono affrontare il mondo degli adulti con annesse e connesse responsabilità e delusioni. Se da una parte l'atto secondo prende in considerazione il futuro dei ragazzi e il peso della scelta (anticipando di un anno il tema del terzo capitolo), dall'altra riflette su come la crescita e la volontà di affermarsi possano mettere in crisi amicizie e amori. Finito, per volere di Sharpay, nelle grazie del signor Evans e ottenuta una promozione all'interno del club, Troy ha la possibilità di mostrare il suo talento come giocatore di basket ma per farlo deve scendere a compromessi. Accettando di cantare con la perfida e capricciosa compagna di scuola al musical organizzato dal Lava Springs deve decidere se abbandonare amici e fidanzata al loro destino o se trovare una soluzione che metta d'accordo ragione e sentimento. High School Musical 2 è perciò un inno ai valori dell'amicizia e alla redenzione che attraverso la musica e il ballo scioglie gelosie e rancori.
Il regista Kenny Ortega, ormai completamente a suo agio dentro e fuori dalle aule della East High School, punta sulla semplicità del linguaggio e delle coreografie per traghettare un messaggio di amore e perdono offrendo persino a Sharpay l'occasione di riscattarsi in un finale illuminato dai sorrisi dei Wildcats e dai fuochi d'artificio.
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Titolo Hop
Anno 2011
Regista Tim Hill
Valutazione 6
Durata 95
Genere Commedia
Classificazione
Trama L'immagine della slitta tirata in cielo da pulcini che porta il coniglietto pasquale in giro per il mondo a consegnare le uova di cioccolata e gli altri dolci spiega tutto. Non solo rimanda il personaggio alla figura e alla mitologia di Babbo Natale ma rimanda tutto il film a quel genere tipicamente americano e natalizio che si occupa di raccontare i retroscena del lavoro di Santa Claus.
Hop è questo, una commedia a metà tra attori in carne ossa e personaggi disegnati, in cui il figlio del coniglietto pasquale invece che seguire le orme paterne e ottemperare al proprio destino decide di scappare dall'isola di Pasqua (e dove potevano abitare se non lì?) per andare ad Hollywood e inseguire la sua passione: la batteria.
Nel suo viaggio si imbatterà in Fred, ragazzone mai cresciuto che si trastulla senza un vero lavoro, incalzato da un padre che lo vorrebbe sistemato. Fred ancora non lo sa ma il suo sogno segreto è diventare coniglio pasquale.
Prendendo un po' dalla mitologia natalizia e un po' dall'idea della fabbrica di Willy Wonka (alimenti dolci, colorati e promettenti felicità che vengono prodotti in maniera giocosa e al limite del magico) Hop opera il classico racconto all'americana di padri traditi e poi soddisfatti, di una famiglia che prima di compattarsi davvero deve separarsi. Lo fa per un target palesemente infantile e lo fa anche con un certo gusto per l'ironia e l'umorismo non necessariamente fisico che è una piacevole sorpresa.
Nel tentativo di avvicinare al pubblico italiano un racconto e delle tradizioni (quelle del coniglietto pasquale) che ci appartengono poco, il doppiaggio è stato affidato a Luca Argentero e Francesco Facchinetti (il primo poco esperto, il secondo troppo protagonista). Il risultato come spesso accade in questi casi è più provinciale che altro.
A sorprendere più di tutto però è la parabola compiuta dal coniglietto protagonista che, contrariamente a quanto solitamente accade in questo genere di film, nonostante sia molto bravo nella sua passione (la batteria) e arrivi a un passo dall'affermazione, grazie alla guest star David Hasselhoff (sempre più involontariamente comico), mollerà tutto per eseguire la volontà del padre e il piano che era stato previsto per lui. Nonostante il sogno nel cassetto sia realizzabile come aveva sperato vi rinuncerà per soddisfare le aspettative della famiglia. Non proprio la classica morale.
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Titolo Hotel Bau
Anno
Regista Thor Freudenthal
Valutazione 5
Durata
Genere
Classificazione
Trama La sedicenne Andi e suo fratello minore Bruce vivono in una casa famiglia dove tentano disperatamente di nascondere alla vista dei loro tutori Venerdì, il cagnolino che vive clandestinamente con loro e che è sempre alla ricerca di cibo. Tuttavia, la passione dei due fratelli per gli animali è tale che, con l'aiuto di alcuni amici riusciranno a trasformare un albergo abbandonato in un rifugio a 5 stelle per i randagi della zona: l'Hotel Bau'. L'impresa più difficile si rivelerà quella di evitare di attirare l'attenzione degli accalappiacani...
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Titolo Hugo Cabret
Anno 2011
Regista Martin Scorsese
Valutazione 8
Durata 125
Genere Avventura
Classificazione
Trama Il piccolo Hugo Cabret vive nascosto nella stazione di Paris Montparnasse. Rimasto orfano, si occupa di far funzionare i tanti orologi della stazione e coltiva il sogno di aggiustare l'uomo meccanico che conserva nel suo nascondiglio e che rappresenta tutto ciò che gli è rimasto del padre. Per farlo, sottrae gli attrezzi di cui ha bisogno dal chiosco del giocattolaio, un uomo triste e burbero, ma viene colto in flagrante dal vecchio e derubato del prezioso taccuino di suo padre con i disegni dell'automa. Riavere quel taccuino è per Hugo una questione vitale.
Con l'adattamento di "La straordinaria invenzione di Hugo Cabret", Martin Scorsese si ritrova e si perde allo stesso tempo, andando alla ricerca del tempo perduto, lui che il meccanismo del tempo, al cinema, lo ha messo alla prova più di altri. Tra le centinaia di persone che affollano il cosmo della stazione ferroviaria, immagini di una cartolina animata da un illusionista, è difficile riconoscere di primo acchito il regista, prestato a stantii siparietti tra ufficiali e fioraie, signore col cane e pretendenti col giornale, che avremmo visto meglio in un film di Jeunet. Quello che non è difficile riconoscere, invece, è il suo amore per la settima arte, profondo come un abisso.
Ed è proprio in quell'abisso che ci fa sprofondare l'incipit del film, in un crescendo d'incanto: la tecnologia tridimensionale smette di essere sfoggio e diviene bullone imprescindibile della costruzione; d'altronde, il film incrocerà di lì a poco Georges Meliès, il padre degli effetti speciali e dell'animazione dell'inanimato.
Ma padre non è solo un modo di dire, non in questa circostanza. Il film, infatti, si presenta letteralmente come un'avventura da cinéfils, nel senso che Daney dava al termine, essendo la storia di un ragazzo che, cercando il proprio padre, trova il cinema. Eppure è proprio su questo punto che Hugo Cabret rischia di perderci e di vederci abbandonare il vagone. Non è tanto la fine consistenza della trama (non era certo un cinema della narrazione, quello degli esordi) e non sono solo i dialoghi artefatti. Più che mai, a frenare l'emozione, è l'abito da film per cinefili cucito su un film per neofiti.
Al cinefilo viene qui sottratto il godimento principe, quello di partecipare ad una missione clandestina, dove l'oggetto del desiderio è qualcosa da andarsi a cercare, lontano dal plauso della critica. Nella rilettura di Scorsese del bell'ibrido cartaceo di Brian Selznick, la magia dell'esperienza cinematografica è esplicitata e ribadita ogni pochi minuti e lo stesso trattamento è riservato al mistero e all'avventura, con effetti a dir poco ridondanti. S'invita lo spettatore ad ammirare lo spettacolo sensazionale, ad emozionarsi di fronte al meraviglioso, ma di fatto lo si tira per un braccio lungo un cammino prestabilito e didattico, che nulla ha di perturbante e molto di accattivante. Più che dietro gli occhi del giovane Hugo, il regista sembra essersi messo al posto dell'imbonitore di un tempo, colui che, quando il cinematografo era ancora uno spettacolo da fiera, sbandierava la natura straordinaria dell'invenzione per portare gente al proprio baraccone. Di fronte a questa presa di posizione (e a questo posizionamento), si può allora legittimamente avvertire o decidere una presa di distanza, perché se il film non può non piacere è anche perché è studiato per farlo.
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Titolo Hunger Games
Anno 2012
Regista Gary Ross
Valutazione 7
Durata 117
Genere Avventura
Classificazione
Trama Finalmente un prodotto cinematografico specificamente pensato per il pubblico giovane che offre ai ragazzi una confezione ben concepita, profondità introspettiva ma soprattutto spunti di riflessione. Che Hunger Games sarebbe stato lontano anni luce dalla saga di Twilight lo si poteva capire già dalla scelta del regista, quel Gary Ross che con Pleasantville e Seabiscuit aveva dimostrato di essere un cineasta in grado di padroneggiare lo spettacolo adatto al grande pubblico senza però renderlo piatto, anzi condendolo con delle sottotrame sempre capaci di rivelare il lato inquietante della facciata conciliatoria americana. In questo suo ritorno al cinema dopo nove anni di assenza fin dalle primissime inquadrature Ross sembra voler prendere esplicitamente le distanze dalla messa in scena patinata e monotona che ci si poteva aspettare visto il target di destinazione del film. Invece Hunger Games parte come un film nervoso, pieno di inquadrature "sporche", di macchina a mano assemblata con un montaggio estremamente serrato. Questa scelta estetica ben precisa all'inizio si rivela addirittura eccessivamente ostentata, in quanto non permette bene di mettere a fuoco ambienti, situazioni ed anche i personaggi, fattore che per un film di fantascienza è piuttosto importante.
Dopo un inizio piuttosto faticoso ma comunque coerente nelle direttive sia estetiche che narrative, il lungometraggio comincia a salire di colpi quando inizia la gara mortale tra i giovani partecipanti. La durezza delle situazioni accresce la drammaticità della storia, e questo permette alla protagonista Jennifer Lawrence di esplicitare con maggiore efficacia le sue notevoli doti d'attrice. Ci troviamo veramente di fronte a un'interprete che a soli ventun'anni riesce perfettamente a riempire un personaggio e a svelarne i lati nascosti. C'è anche da sottolineare però che la sua Katniss Everdeeen è un ruolo molto interessante nella sua fragilità celata e nel suo bisogno quasi primitivo di aggrapparsi e di proteggere chi le sta intorno. Risulta poi interessante che l'arco narrativo di Katniss non sia delineato in modo classico ma rimanga piuttosto indefinito, o meglio fascinosamente "aperto" per una presa di coscienza che verosimilmente avverrà nei prossimi episodi dell'annunciato franchise. Già, perché Hunger Games semina anche in alcune scene dei momenti che non è illecito supporre "politici", e che riempiono ancor di più una sceneggiatura già densa. Altra sottolineatura la merita il valevole gruppo di caratteristi che compone il cast di supporto del film: su tutti vogliamo spendere una parola d'elogio per l'intramontabile Donald Sutherland, mellifluo e ipnotico come soltanto lui sa essere. Per quanto riguarda invece il lato più specificamente tecnico del film, la fotografia di Tom Stern e le musiche sempre poetiche di James Newton Howard sono le cose più riuscite.
Cinema per giovani capace di scavare in profondità e proporre uno spettacolo non superficiale. Hunger Games riesce dove negli ultimi anni questo tipo di intrattenimento aveva pesantemente fallito. A prescindere dalle sbavature e dalle imperfezioni del prodotto finale, questo è già un enorme merito.
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Titolo I Corti di Aldo Giovanni e Giacomo
Anno 1996
Regista
Valutazione 8
Durata 80
Genere
Classificazione
Trama Lo spettacolo, come si evince dal titolo, è composto da dieci scene che ripropongono alcuni classici del trio: da una scena di trenta minuti a una di cinque secondi, una comicità che avviò al successo i tre comici. Molte battute e sketch saranno riutilizzate nei loro film successivi.
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Titolo I due superpiedi quasi piatti
Anno 1977
Regista E.B. Clucher
Valutazione 7
Durata 115
Genere Avventura
Classificazione
Trama Rapinatori maldestri e disoccupati, il Furbo e il Grosso diventano per caso abili poliziotti. Vendicheranno la morte di un ragazzo cinese arrestando i colpevoli. 3° film di Enzo Barboni, in arte E.B. Clucher, con la coppia campione degli incassi degli anni '70, è un piacevole e simpatico insieme di gag comiche che rischia di esaurirsi in ripetizioni e battute già sentite.
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Titolo I fantastici 4 e Silver Surfer
Anno 2007
Regista Tim Story
Valutazione 6
Durata 92
Genere Azione
Classificazione
Trama Doppio problema da affrontare per i Fantastici Quattro: la Terra è minacciata dall'arrivo di Silver Surfer, araldo di Galactus, il distruttore di mondi, che vuole cancellare dall'universo il nostro pianeta per ottenerne l'energia necessaria al suo sostentamento e il "solito" Dottor Destino,che, redivivo, trama contro il quartetto per eliminarlo una volta per tutte.
Deciso passo avanti rispetto al prequel, I Fantastici 4 e Silver Surfer, è un valido film d'intrattenimento che garantisce un'ora e mezza di svago e propone al pubblico uno dei personaggi più interessanti dell'universo Marvel, Silver Surfer, eroe tragico e romantico, che rappresenta il vero valore aggiunto alla pellicola, grazie al suo indiscusso carisma.
La messa in scena è senza fronzoli ma efficace: I Fantastici 4 e Silver Surfer ha il grande pregio di non prendersi troppo sul serio, mantenere un tono scanzonato e divertente per tutta la sua (finalmente) breve durata; sa suscitare il sorriso grazie ad alcuni dialoghi simpatici e garantisce emozioni con sequenze ad alto tasso di spettacolarità visiva. Il quartetto di protagonisti è più coeso e affiatato rispetto al primo film e, nonostante i talenti individuali non siano certo sfruttati appieno, le scaramucce verbali tra Michael Chiklis e Chris Evans, la sobrietà di Ioan Gruffudd e la solare avvenenza di Jessica Alba (che peccato però quelle lenti azzurre…) si fanno apprezzare. Nota stonata invece per Julian McMahon: anche questa volta il suo Dottor Destino fa da mera comparsa, e rischia di vincere il premio come "villain" meno pericoloso della storia dei comics movie. È altamente probabile che i fanatici del fumetto trovino più di una nota stonata ne I Fantastici 4 e Silver Surfer, forse troppo poco serio e poco rappresentativo dell'originale, ma per tutti gli altri, la pellicola di Tim Story è un allegro divertissement, perfetto per una spensierata estate cinematografica.
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Titolo I figli degli uomini
Anno 2006
Regista Alfonso Cuarón
Valutazione 7
Durata 114
Genere Drammatico
Classificazione
Trama 2027. In un futuro non troppo distante, in cui il mondo non può più procreare, l'Inghilterra rimane unica zona franca, per non confrontarsi con le guerriglie urbane. Theo (Clive Owen), rapito da Julian (Julanne Moore), una donna attivista amata in passato, ha una grande responsabilità. Dovrà condurre salva una giovane donna fino a un santuario sul mare, e dare la possibilità al mondo di evitare l'estinzione.
Sulla linea degli scrittori utopistici e futuristici, P.D.James ha scritto il romanzo da cui è tratto il film, in cui Cuaròn fin dalle prime sequenze ci illustra un mondo grigio, oppressivo, incolore, fra il pre-industriale (le costruzioni e i palazzi sembrano proprio quelli della "industrial revolution"), e il post-atomico, (per la scarsità di vegetazione). Londra appare come non cambiata, se non per i mercati ai bordi delle strade e gli autobus a due piani completamente scrostati dal tempo. In questo ambiente senza profondità si muovono i protagonisti. Ne sono una conferma gli stereotipi del multirazzialismo e del multilinguistico (quello che sarà non è per forza diverso da quello che è oggi).
Nel panorama così definito, la macchina da presa segue Theo-Clive Owen in tutte le situazioni, come un inviato di guerra in una visione quasi documentaristico-soggettiva del futuro per acuire il senso di chiuso, di claustrofobia, e di mancanza di certezze. Ne è un esempio la guerriglia che, all'esterno della zona franca, appare come uno spaccato del conflitto jugoslavo, dove tutti sparano a tutti, e un proiettile vagante ha il potere di cambiare il personale futuro (la sequenza dei carrarmati che colpiscono una palazzina, è una scena di guerra impressionante).
Per antitesi, la speranza di vita, rinascita di un "nuovo mondo", è l'unica apertura del film all'ottimismo, in un percorso al buio, in cui il caso regna sulle esistenze di tutti.
Children of Men è un film corale, è dell'umanità, (si propone raramente come singolo, per esempio nel caso dello scienziato Justice, Michael Caine, eremita per scelta ai bordi della società), perchè il futuro della terra non è dellindividuo singolo. È semplicemente globale.
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Titolo I goonies
Anno 1985
Regista Richard Donner
Valutazione 7
Durata 114
Genere Avventura
Classificazione
Trama Sette ragazzini americani che vivono nel quartiere di Goon Docks (goon sta per svitato, strambo) di una città costiera sono coinvolti in una grande avventura, la caccia a un tesoro nascosto nella baia da un pirata del Seicento. Prodotto da Steven Spielberg, sostenuto da una sceneggiatura troppo affastellata e diretto da un accademico mediocre, è un grosso spettacolo per famiglie, mirato al pubblico dei ragazzini. Pesante con qualche guizzo.
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Titolo I guardiani del destino
Anno 2011
Regista George Nolfi
Valutazione 6
Durata 106
Genere Thriller
Classificazione
Trama David Norris, un giovane uomo col vizio della politica, è candidato alla carica di senatore nello stato di New York. In vantaggio sul suo giurassico avversario, David punta tutta la sua campagna sulla freschezza dei suoi pochi anni e su uno spiccato talento oratorio. Ma una foto goliardica, pubblicata intempestivamente dalla stampa, compromette la sua vittoria, assicurandogli nondimeno la simpatia, la fiducia e il voto di Elise, una ballerina promettente incontrata per caso nel bagno degli uomini. Innamorati e perduti nel tempo di un bacio, David ed Elise si congedano per cercarsi e ritrovarsi lungo le strade e sugli autobus di New York. Quel loro amore tuttavia non è scritto nel libro del Presidente, una sorta di deus ex machina che decide il destino degli uomini. Elise non era prevista nel percorso esistenziale di David e dunque i guardiani del destino, agenti operativi del Presidente in giacca, cravatta e Borsalino, dovranno deviarla, aggiustando il tiro e garantendo un disegno più alto. Rivendicando il libero arbitrio, David sfiderà gli ordini superiori a colpi di testa e di cuore.
Frutto (probabilmente) di un acido ben fatto, Philip K. Dick vide dentro una primavera degli anni Settanta il Programmatore programmare le nostre vite sulla terra. Quell'esperienza diretta di 'estasi' gli rivelò 'la verità', ossia che gli uomini sono lo strumento per mezzo del quale si compie il disegno del Gran Burattinaio. Da un'altra esperienza, questa volta di creazione letteraria e in ogni caso allineata con quella mistica, nasce invece I guardiani del destino, racconto breve dell'autore americano trasposto sullo schermo da George Nolfi. Thriller sentimentale, I guardiani del destino combina momenti forti, tesi all'emozione adrenalinica, con sequenze chiuse in se stesse alla ricerca della commozione e della realizzazione di un amore splendido. Mentre Matt Damon combatte l'oscuro antagonista che lo spinge a battere un percorso voluto, il film solleva le ossessioni di Dick sulla necessità di distinguere la realtà oggettiva da quella soggettiva, sull'idea del complotto come trama ordita ai danni dell'individuo, sulla sorveglianza ossessiva esercitata dagli apparati di potere. Il titolo originale (The Adjustment Bureau) anticipa di fatto il passo che conduce il film, l'accomodatura verso l'esito desiderato per il protagonista da una presenza o 'presidenza' superiore. L'entità ha un braccio di agenti armati di Borsalino che controllano scrupolosi che gli uomini si muovano lungo linee prestabilite senza compromettere l'esito finale, senza scrutare dietro la porta di un futuro prossimo. Ma David Norris non vuole prendere parte all'evento programmato, procedendo in direzione ostinata e contraria.
I guardiani del destino è l'ennesimo adattamento dickiano che prova a leggere la contemporaneità con uno sguardo che dalle sue pagine mutua i temi fondamentali (la crisi del soggetto, la sostanziale falsità delle nostre percezioni, la compresenza di realtà parallele, etc) mancandone l'anima diversamente da opere altre, influenzate dal suo mondo letterario senza esserne trasposizioni dirette (Memento, Se mi lasci ti cancello, eXistenZ). Senza avere meriti di innovazione estetica, nondimeno il thriller romantico di Nolfi (sceneggiatore di The Bourne Ultimatum) trova il suo punto di forza nel protagonista. Così I guardiani del destino è uno di quei film che vale la pena vedere solo perché. Solo perché c'è Matt Damon, stanato da Eastwood che gli ha tolto la maschera (Hereafter) e recuperato l'identità. Rimanendo fedele al concetto che il personaggio è azione e stringendo la mano della donna che ama, Matt Damon attraversa le porte di una New York 'liquida' e segna il punto di passaggio: da attore del fare ad attore dell'essere. Così Nolfi svelando la matrice, svela il divo. Un divo bravo. Bravo sul serio.
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Titolo I Love Shopping
Anno 2009
Regista P.J. Hogan
Valutazione 4
Durata 105
Genere Commedia
Classificazione
Trama In attesa di essere assunta dalla rivista di moda dei suoi sogni, Rebecca Bloomwood spende il suo tempo e il suo denaro nei negozi griffati della Fifth Avenue. Traumatizzata da un'infanzia dimessa e da una madre che la vestiva in saldo, Rebecca è decisa a scongiurare il trauma e a riempire l'armadio di abiti, gonne, biancheria, scarpe, borse, stivali e accessori di ogni genere. Compratrice compulsiva e bugiarda recidiva, Rebecca deve sopravvivere all'estratto conto della sua carta di credito e fare fronte ai suoi debiti. Assunta suo malgrado da una rivista finanziaria, finirà per innamorarsi del suo capo redattore e per inventarsi una rubrica che consiglia parsimonia e investimenti sicuri. Dietro l'angolo l'aspettano la terapia dell'acquisto, un impiegato del recupero crediti e naturalmente l’amore. Nel 2000 esce a Londra un romanzo esile e gradevole di Madeleine Wickam, alias Sophie Kinsella, destinato all'affollata e denigrata riserva della chik lit (letteratura per ragazze). Trattato con condiscendenza dalla critica, "I love shopping" diventa un best-seller e quattro sequel dopo risponde entusiasta alla chiamata di Hollywood. Trasposto da Paul J. Hogan e traslocato a New York, I love shopping racconta l'irrefrenabile desiderio d'acquisto e il delirante apprendistato di una giornalista in erba che indossa abiti firmati e mises studiatissime. Sullo sfondo ancora una volta c'è New York, la città dove le donne si affermano, vivono esistenze "alla moda", imparano a vestirsi come nessun'altra e affrontano la vita in equilibrio su un paio di Manolo Blahnik o di Jimmy Choo. Rebecca Bloomwood è l'incrocio abbagliante tra la brillante pubblicista Carrie Bradshaw (Sex and the City) e l’apprendista fresca di laurea Andy Sachs (Il Diavolo veste Prada). Della prima Rebecca condivide il ruolo di fashion victim, l'etica sentimentale e una rubrica giornalistica costruita sulla base di storie vissute, della seconda l'innocenza grottesca, il sogno del successo e il desiderio di scrivere per una rivista prestigiosa. Il regista di una delle più belle commedie romantiche degli anni Novanta (Il matrimonio del mio migliore amico) non riesce a doppiare a New York il miracolo di Chicago e di una smagliante Julia Roberts che cedeva il passo e il fidanzato a un'acerba Cameron Diaz. Lo script, che nella malattia compulsiva di Rebecca individua il soggetto principale, fatica a tenere insieme l'inerte storia d'amore tra la giornalista e il suo capo redattore. La vera coppia romantica è quella formata da Rebecca e gli shops, tenuta insieme da un'attrazione fatale, a cui la ragazza finirà per sottrarsi rocambolescamente e dentro il suo abito peggiore. Alle prese con una giornalista "di platino" che respinge il "diavolo" ma parla pradese e finlandese, Hogan lascia che sia proprio la sua voce a commentare la vicenda, fornendo alla fine una morale e una conclusione condivisibile, producendo un senso e un piacere che si risolvono però nella sola superficie visiva. Come una sciarpa (verde) I love shopping è impalpabile e (forse) durerà una stagione.
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Titolo I mercenari - The Expendables
Anno 2010
Regista Sylvester Stallone
Valutazione 6
Durata 103
Genere Azione
Classificazione
Trama Gli Expendables sono un gruppo di mercenari professionisti dell'artiglieria e del combattimento corpo a corpo, chiamati ad assolvere solo missioni ad alto rischio. In seguito a un blitz su di un cargo di terroristi somali finito in carneficina, il capo della banda, Barney Ross, decide di espellere il tiratore scelto Gunnar a causa del suo temperamento scriteriato e imprevedibile. I "sacrificabili" rimasti si ritrovano invece amichevolmente da Tool, vecchio membro della squadra passato ai tatuaggi e al ruolo di tramite coi vari mandanti degli incarichi. L'ultimo dei quali chiede a Barney e ai suoi uomini di uccidere il dittatore di un'isola del Centro America in affari con un americano per gestire il traffico della droga.
"The boys are back in town", urlano i Thin Lizzy sui titoli di coda. E, in effetti, a giudicare dal modo in cui riecheggiano nella testa esplosioni, ossa rotte e guaiti di corpi trucidati, quei ragazzi che negli anni ottanta "menavano duro" senza complessi di colpa o dilemmi etici, che sapevano maneggiare ogni tipo di arma e uccidere uomini a velocità invereconda senza l'ombra di un pensiero nella testa, sono davvero tornati. Se non altro, è tornato Sylvester Stallone, che dopo aver sepolto personalmente i suoi diretti alter ego (Rocky Balboa e John Rambo), ha deciso di abbandonare l'atteggiamento crepuscolare e reazionario per orientare il suo spirito nostalgico verso il registro più frivolo della moda camp e della cultura pop. Non più, quindi, solo eroi solitari e rabbiosi, ma, in linea con la riscoperta dell'etica del branco da parte di Hollywood, un'intera squadra di mercenari die hard. Non più solo un'estetica dura e violenta, ma anche cool. Non più solo toni retrospettivi e nostalgici, ma anche goliardici e conviviali. Non più solo magliette sudate e occhiali da sole, ma anche accessori fra il vintage e l'high-tech. Gli Expendables sono la sincresi fra gli anni ottanta e i duemila, fra vecchie e nuove glorie del cinema muscolare o di quella lotta-spettacolo che è il wrestling, riuniti tutti assieme da un pretesto effimero, come in ogni rimpatriata che si rispetti. La storia che vede questa banda di audaci e massicce macchine da guerra cercare di far saltare in aria un'intera isola del Golfo del Messico per amore della figlia ribelle del dittatore ("Bad Shakespeare", come commenta il cattivo di Eric Roberts), è infatti il sottilissimo filo rosso con cui Stallone ricuce assieme brandelli del cinema d'azione che fu per farne un patchwork il più possibile in linea con lo spirito della contemporaneità. Non a caso, pone in prima linea se stesso e Jason Statham, due icone tanto coriacee quanto, fino ad ora, opposte nel liberare ironia dal cinema iperbolico. Gli altri, da Jet Li a Dolph Lundgren, da Terry Crews a Randy Couture, restano invece in seconda fila in attesa del loro personale momento di gloria distruttiva, quando cioè Stallone si impegna a dimostrarsi un realizzatore capace di integrare le vecchie coreografie dei corpo a corpo col miglior dispendio di energie digitali. Oppure, come Mickey Rourke, partecipano alla fanfara solo per esprimere la loro identità di guerrieri risorti e il loro talento da Actor's Studio.
In un certo senso, i nuovi eroi di Stallone non vivono più nel mondo reale, sono al di fuori delle leggi del tempo e dello spazio (dalla Birmania di John Rambo si passa infatti all'isola fittizia di Vilena). Riconoscono il passare delle generazioni (Statham è l'unico che riceve sms e che sa maneggiare un apparecchio fotografico come una videocamera), solo perché sanno di non poter invecchiare. E vivono di, e non solo nel, cinema perché è l'unico mezzo che gli consenta ancora di salire su un aereo in corsa o di distruggere un elicottero colpendo al volo una bomba aerea. Le loro missioni non sono né per denaro, né per senso etico della giustizia, ma solo per il pubblico: sono pura esibizione della tenacia dei loro muscoli e della pervicacia del loro agire. Con I mercenari, Stallone riesce quindi a consacrare le sue ossessioni di sempre (il mito e la forza fisica) dentro ad un nucleo instabile di umorismo ruvido e di violenza convulsa. Incrocia il personaggio con la star, l'eroe con l'attore, e si permette di fissare un incontro-scontro con l'amico Schwarzenegger fra un milione di anni. Se lo fa, è perché sa che i palazzi crollano, i cattivi muoiono, il petrolio brucia, le guerre finiscono e ricominciano, ma loro, gli eroi del cinema, sono immortali.
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Titolo I padroni della notte
Anno 2007
Regista James Gray
Valutazione 7
Durata 117
Genere Drammatico
Classificazione
Trama Due fratelli e un padre. Così si potrebbe sintetizzare l'idea di base del film. Un padre che è uno dei più rispettati poliziotti di New York e due figli Bobby e Joseph che più diversi non potrebbero essere. Bobby (che ha anche ripudiato il cognome paterno) che gestisce un locale equivoco centro di traffici poco leciti della mafia dell'Est. Joseph (un Wahlberg sprecato dopo l'intensa prestazione in The Departed) che ha seguito le orme paterne entrando in polizia. Il confronto all'interno della famiglia è duro ma quando il padre viene ucciso proprio dalla mafia e Bobby è presente sulla scena del delitto la situazione cambia. I fratelii si riavvicinano per vendicarne la morte.
James Gray aveva interessato la critica e il pubblico internazionali con Little Odessa. Peccato che poi i suoi temi siano rimasti sempre quelli (la mafia dell'Est, la polizia) inseriti in film d'azione che, nonostante i proclami di riferimento a modelli alti come Visconti e il Neorealismo, risultano estremamente stereotipati. Senza anticipare nulla sul finale non si può mancare di dire che, oltre a tutto, un'azione decisamente illegale compiuta da un appartenente al corpo della polizia di New York sotto gli occhi dei colleghi non solo viene consentita ma addirittura premiata. Assomiglia un po' troppo a una soluzione da western della decadenza per divenire accettabile in un film poliziesco metropolitano. Anche nell'era Bush. (2 stelle perchè Duvall, qualsiasi ruolo ricopra, è sempre un grande attore).
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Titolo I Puffi
Anno 2011
Regista Raja Gosnell
Valutazione 7
Durata 90
Genere Animazione
Classificazione
Trama Tutto scorre tranquillo nel villaggio dei Puffi come da sempre. Grande Puffo e i suoi 100 figli lavorano, cantano e preparano la festa della Luna blu mentre Gargamella cerca un modo di catturarli. Un errore di Puffo Tontolone però farà scoprire al mago malvagio l’ubicazione del villaggio e costringerà tutti a una fuga al termine della quale Grande Puffo, Puffetta, Puffo Coraggioso, Brontolone e per l’appunto Tontolone saranno scaraventati attraverso un vortice dimensionale a Manhattan e Gargamella appresso a loro.
Nella grande mela i piccoli Puffi cercheranno in ogni modo di scatenare il medesimo incantesimo che li ha portati lì, in modo da tornare nel loro mondo, mentre Gargamella sfrutterà la sua magia per catturarli. Ad aiutarli una coppia di newyorchesi con un bimbo in arrivo.
Partendo da un mostruoso lavoro sull’animazione digitale dei personaggi principali e sulla realizzazione di un villaggio che è contemporaneamente realistico e favolistico, il primo film in live action dei personaggi creati da Peyo è un’opera che segna lo stato dell’arte della tecnica di animazione computerizzata e la applica a un’idea di cinema classica per l’infanzia. Diversamente dal solito c’è solo un’attenzione maggiore agli adulti, spettatori accessori del film. Molto spazio infatti è lasciato alla coppia di newyorchesi e ai loro problemi di futuri genitori, una dimensione sentimentale che potrebbe non accontentare gli adulti e di certo annoia i bambini.
La cosa più curiosa tuttavia è come con spirito molto moderno, consapevole della natura del mezzo cinematografico e geek nella sua attitudine, il film di Raja Gosnell applichi la consueta parabola disneyiana (un'avventura morale al termine della quale si ricostituisce un equilibrio e si impara una lezione) per negare molti degli assunti di base dei Puffi.
È Neil Patrick Harris, attore simbolo di un'industria audiovisiva a misura di geek, che svela l'arcano ponendo domande precise e accurate ai Puffi riguardo la loro natura, come sia possibile che ognuno porti un nome che ne rispecchia la personalità, se questi nomi vengano assegnati prima della nascita ecc. ecc. Insomma esibisce quell'atteggiamento volto all'approfondimento che è la cifra della ricezione culturale contemporanea. Eppure tutta l'idea morale del film va nella direzione dell'affermazione della diversità e della compresenza di più istinti e vocazioni diverse in ogni individuo. Tontolone (vero protagonista del film) non sarà solo un tontolone ma potrà dimostrarsi anch'egli eroe tanto quanto Puffo coraggioso.
L’archetipo anarchico-comunista del villaggio dei Puffi, in cui tutti sono uguali e la vita scorre serena senza valuta poichè ognuno ha un compito che svolge per la comunità senza aspettarsi in ritorno nulla se non la stessa cosa da parte degli altri, diventa così nell’idea americana del film (che comunque più volte omaggia l’autore originale Peyo) un inno all’individualismo e all’eroismo solitario e benchè alla fine tutti i Puffi combattano uniti sarà l’eroismo di uno di loro a fare la differenza.
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Titolo I quattro dell'Ave Maria
Anno 1968
Regista Giuseppe Colizzi
Valutazione 7
Durata 132
Genere Western
Classificazione
Trama Anziano bandito cerca di recuperare il tempo perso in carcere derubando due avventurieri che, dopo averlo catturato, si alleano con lui ai danni di un ricco biscazziere. È un brioso, scattante, picaresco "spaghetti-western" in cui, per la 1ª volta, Hill (Mario Girotti) e Spencer (Carlo Pedersoli) lavorano insieme, bravi quasi quanto il bravissimo E. Wallach.
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Titolo I Robinson, una famiglia spaziale
Anno 2007
Regista Stephen J. Anderson
Valutazione 6
Durata 82
Genere Animazione
Classificazione
Trama In una notte buia e tempestosa, una donna incappucciata abbandona un fagotto davanti alla porta di un orfanotrofio e sparisce nella pioggia. Dodici anni dopo, il piccolo Lewis aspetta ancora che qualche coppia di buon cuore si decida ad adottarlo, ma ormai di possibili genitori ne ha visti tanti e tutti sono scappati a gambe levate di fronte al suo talento d'inventore, geniale e pasticcione. Quando sta per perdere le speranze, dopo che anche il suo ultimo prototipo -lo scanner mnemonico- pare averlo tradito, Lewis fa la conoscenza di Wilbur Robinson, un coetaneo apparso dal nulla, e vola con lui nel futuro a scoprire che tutto è ancora possibile: basta solo inventarlo!
Tratto dal libro per bambini "A Day with Wilbur Robinson" di William Joyce e diretto da Steve Anderson, I Robinson, il nuovo film d'animazione della Disney (questa volta priva dell'aiuto degli "incredibili" creativi della Pixar), recupera lo spirito pionieristico del fondatore e riflette sull'errore in cui incappa chi si guarda alle spalle pieno di nostalgia invece di dirigere il proprio sguardo all'avvenire, con speranza e curiosità. "Sempre avanti", pare dicesse zio Walt, e il suo motto finisce ora in bocca a Cornelius Robinson, capofamifiglia della casata più eccentrica e affettuosa in cui Lewis potesse imbattersi.
C'è Franny, la madre di Wilbur, che coordina un'orchestra di rane canterine, nonno Bud, che ama indossare i vestiti (o la testa?) alla rovescia, zio Art, che consegna pizze a domicilio in tutta la galassia, zio Fritz, che ha sposato la sua bisbetica marionetta Petunia, e poi ci sono Ottomano, la piovra maggiordomo, Carl, robot raffinato e rubacuori (di lavastoviglie e teiere) e Spike e Dimitri, gli zii che vivono nei grandi vasi di ceramica all'ingresso di casa e fungono da allarme. Tutti coloratissimi e chiassosi, sostenitori dell'importanza di festeggiare ogni fallimento (senza il quale il successo non arriverebbe mai), i Robinson adottano Lewis per un giorno e si alleano con lui per annientare il cattivo di turno, l'Uomo con la Bombetta.
Su questa fiaba tenera e intelligente, che contempla una strizzatina d'occhio al Ritorno al futuro di Zemeckis, s'innesta la sfida della computer grafica, alle prese con una specie su cui non aveva mai lavorato fino a ora in modo tanto mirato e massiccio: gli esseri umani.
Non ci si aspettino malizie cinefile o dialogiche: qui tutto è a portata di bambino e si ribadisce il concetto per cui bisogna saper aspettare e vivere appieno l'infanzia prima di trasferirsi nel pazzo (ma non sempre terribile) mondo degli adulti.
La vera sorpresa è il personaggio di Grufolo, a dir poco indimenticabile. L'unica raccomandazione: astenersi dietrologi e passatisti.
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Titolo I signori della truffa
Anno 1992
Regista Phil Alden Robinson
Valutazione 7
Durata 126
Genere Poliziesco
Classificazione
Trama Una squadra di assi dello spionaggio industriale è costretta dal governo a recuperare un prezioso decodificatore. La trama è molto aggrovigliata, tanto che dà luogo a due film in uno. Nella prima parte prevalgono i toni leggeri della commedia, poi si ricomincia da capo con il thriller e la suspense. P.A. Robinson, regista competente, mimetizza ambizioni d'autore sotto la vernice di un efficiente mestiere hollywoodiano puntato al divertimento. Ci riesce benissimo. Il titolo italiano è deviante: sneakers è un termine che indica le scarpe da tennis e chi le indossa; to sneak sta per introdursi furtivamente, e con le scarpe da tennis si è veloci e silenziosi.
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Titolo I Simpson - Il film
Anno 2007
Regista David Silverman
Valutazione 7
Durata 87
Genere Animazione
Classificazione
Trama Stavolta Homer l'ha fatta grossa. Non solo ha portato un maiale in casa, ma ne ha persino scaricato i bisogni nel lago di Springfield, appena depurato, che ha così nuovamente superato i limiti sostenibili di inquinamento: il governo americano non può che intervenire e inglobare la cittadina sotto una cupola di vetro indistruttibile per evitare contaminazioni. La famiglia Simpson, messa alla gogna dal resto della popolazione, non può che fuggire (in Alaska): spetterà a Homer, dopo mille vicissitudini, riportare le cose alla normalità.
Due domande erano in attesa di ricevere una risposta, dal giorno dell'annuncio che I Simpson sarebbero finalmente arrivati al cinema: qualcuno pagherà per vedere sul grande schermo le avventure della più famosa famiglia americana, nonostante si possano guardare centinaia di episodi gratis in televisione? Gli autori saranno riusciti a infondere nuova linfa a una serie che, dopo vent'anni di trionfi, comincia a perdere un po' di smalto? Se alla prima, il boxoffice ha replicato con un incasso superiore al mezzo miliardo di dollari in tutto il mondo, alla seconda la risposta è un sì non del tutto convinto.
È indubbio che I Simpson - Il film sia divertente, simpatico e proponga a volte gag fulminanti ("Spiderpork"): tuttavia non si può fare a meno di notare che il cinismo, la capacità di mettere alla berlina vizi, paure, dogmi e false certezze del mondo occidentale risulti spuntata rispetto alla stragrande maggioranza delle puntate viste in televisione. La sceneggiatura, scritta da tante, forse troppe, mani, non ha il solito mordente e sembra ritrarre la mano dopo aver scagliato il sasso: la comicità è quasi del tutto affidata a numerose slapstick, gag visuali e alle solite scaramucce tra Homer e i componenti della sua sbalestrata famiglia, con il resto dell'infinita galassia di concittadini e personaggi secondari a fare da mero sfondo alla vicenda.
Molto apprezzabile è invece il non aver voluto snaturare lo stile grafico dell'originale: le poche sequenze in tre dimensioni sono piacevoli e ben inserite nel contesto. Resta però l'impressione che il "film" sia più simile a un episodio televisivo allungato che a una vera opera cinematografica. Un po' delusione quindi, e una mezza occasione mancata. Una stella in più comunque va data "alla carriera", perché riuscire a far ridere e riflettere per vent'anni (e diciotto stagioni) è quasi impossibile nel frenetico mondo dell'intrattenimento, ma I Simpson, e quattrocento puntate lo dimostrano con cristallina chiarezza, ce l'hanno fatta.
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Titolo I soliti sospetti
Anno 1995
Regista Bryan Singer
Valutazione 7
Durata 105
Genere Giallo
Classificazione
Trama Riuniti in un commissariato per un'identificazione, cinque malfattori si mettono d'accordo per un colpo grosso. Riuscita l'impresa continuano, ma si accorgono di essere manipolati a distanza da Kayser Söze, potente genio del crimine che nessuno ha mai visto. Con inganni a ripetizione _ voce narrante fuori campo, flashback, perfino immagini menzognere _ si arriva al finale. Scioglimento dell'enigma con due colpi di scena. Thriller di azione violenta che sembra talvolta in bilico tra la parodia e il fantastico. Recitazione di squadra con K. Spacey claudicante _ che prese l'Oscar come miglior attore non protagonista con Christopher McQuarrie per la sceneggiatura _ sopra tutti.
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Titolo I tre moschettieri
Anno 2011
Regista Paul W.S. Anderson
Valutazione 6
Durata 102
Genere Avventura
Classificazione
Trama Nella Francia del '600 tre moschettieri e un ragazzo di Guascogna compiono una missione che potrebbe sembrare suicida per andare a recuperare una collana in terra Inglese. L'oggetto trafugato dalle stanze della regina dalla spia doppiogiochista Milady potrebbe essere usato infatti come ingannevole prova di una relazione tra la sposa del re di Francia e la casa Inglese, scatenando una guerra tra le due nazioni, proprio come vogliono le trame del perfido Cardinal Richelieu.
Sulla scia del successo dello Sherlock Holmes di Guy Ritchie, anche il romanzo di Alexandre Dumas viene sottoposto al medesimo trattamento: uno stravolgimento totale della trama, a partire dall'uso dei medesimi personaggi che incarnano versioni moderne del loro carattere. L'esito però è di certo meno godibile dell'investigatore di Ritchie.
Regista videoludico per eccellenza (a lui la palma del maggior numero di trasposizioni dirette dal joypad al grande schermo) Paul W. S. Anderson sceglie per questo I tre moschettieri in versione steampunk-fumettosa di non abbandonare il suo terreno d'elezione, affiancando alle molte soluzioni rubate da altri film anche una buona dose di idee nate per le console.
Ma proprio la tendenza di Anderson a rubare da altri film o altri videogiochi è l'elemento più sconfortante del film. La citazione, per sua definizione, è un riferimento allusivo, un ammiccamento vago o un ricalco rispettoso e coerente con il suo modello originale, che giova al film citato tanto quanto al citante; Anderson invece saccheggia e dispone di quel che ha saccheggiato con arroganza, pretendendo che ciò che funzionava altrove funzioni nella stessa maniera anche nel suo film. Così abbondano idee visive e di dialogo prelevate di sana pianta da "Assassin's Creed", "Civilization", Matrix (ancora?!?!), "Populus", Elizabeth (sia il primo che il secondo), "Call of Duty", Sherlock Holmes (per l'appunto), Per un pugno di dollari, e addirittura Troy nell'inquadratura finale! Senza che mai il film ne esca arricchito.
Al contrario è nelle parti più eminentemente fumettistiche, quando l'iperbolico si accoppia allo steampunk, che ci si inizia a divertire, perchè al linguaggio del cinema altrui Anderson sostituisce la necessità di narrare lasciando alla straordinaria fotografia di Glen MacPherson (a metà tra un dipinto e Photoshop) il compito di creare l'atmosfera più corretta, quella cioè che si accoppia con le capigliature improbabili dei personaggi e i colori sgargianti che già gli avevamo visto maneggiare in Resident evil: afterllife, sempre di Anderson.
Dunque al netto delle velleità cinematografiche, di un 3D inesistente, dei momenti più legati al romanzo d'origine e delle performance degli attori (tutti svogliati, Christoph Waltz compreso ma Milla Jovovich esclusa), ci si può anche divertire.
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Titolo Il buono, il brutto e il cattivo
Anno 1966
Regista Sergio Leone
Valutazione 8
Durata 176
Genere Western
Classificazione
Trama Durante la guerra di Secessione (1861-65) il Biondo, bounty-killer un po' romantico, Tuco, vendicativo fuorilegge messicano, e Sentenza, cinico assassino a pagamento, si associano, senza alcuna fiducia reciproca, per recuperare un tesoro nascosto in un cimitero. Profanatore del western, il più tipico genere del cinema USA, ma anche risolutamente critico perché quasi sempre ha tradito la vera storia della nazione, trasformandola in mito, Leone chiude la "trilogia del dollaro" con il suo film più ambizioso e costoso, più ironico e beffardo. Non a caso l'ha scritto con Luciano Vincenzoni e Age & Scarpelli, grandi specialisti della commedia: il tema del denaro è sempre legato alla morte violenta, ai cadaveri; la guerra è un banditismo organizzato; non c'è differenza tra nordisti e sudisti: tutti e 3 i protagonisti (uno nel 1°, due nel 2° della trilogia) sono mossi dalla rapacità, pur in modi diversi. Prodotto dalla Pea di Alberto Grimaldi, incassò soltanto in Italia più di 3 miliardi di lire nella stagione 1966-67. Bisogna decidersi: Leone è un dissacratore o un mistificatore?
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Titolo Il cacciatore di aquiloni
Anno
Regista Marc Forster
Valutazione 7
Durata
Genere
Classificazione
Trama E' un piacevole assolato pomeriggio a Kabul e i piccoli Amir, figlio di un notabile pashtun, ed Hassan, il suo piccolo servitore azara, stanno partecipando ad una gara di aquiloni. Tuttavia, il risultato della gara e un atto di vigliaccheria segneranno la rottura dell'amicizia fraterna tra i due bambini. Venti anni dopo, Amir, che si è trasferito negli Stati Uniti, torna nel suo paese ormai governato dai Talebani per combattere i fantasmi del passato e ristabilire la giustizia.
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Titolo Il castello errante di Howl
Anno 2004
Regista Hayao Miyazaki
Valutazione 8
Durata 119
Genere Animazione
Classificazione
Trama Il genio ha colpito ancora. Dopo più di vent'anni di carriera c'è veramente da togliersi il cappello davanti ad uomo, prima ancora che regista, capace come nessuno mai prima nel campo del cinema d'animazione (e non solo) di riuscire a centrare sempre e comunque l'obbiettivo che ogni cineasta dovrebbe avere come scopo unico: emozionare.
E di emozioni, l'ultima opera di Hayao Miyazaki, ne offre veramente a bizzeffe. Howl's Moving Castle, è un ulteriore tassello, nel mosaico che il regista giapponese sta componendo col passare degli anni che mescola l'attenzione alle tematiche ambientali, all'utilizzo malsano della tecnologia, che propone esseri umani calati in universi fantastici ed immaginari, dove creature soprannaturali insegnano all'uomo come vivere e quali valori seguire e difendere.
Tra realtà dell'immagine e metafore, il film si dipana lentamente, offrendo la abituale ma sempre fenomenale panoramica sui paesaggi e personaggi da sogno (il film realizzato in maniera tradizionale è visivamente impressionante), nei quali la fantasia di Miyazaki e di Joe Hisashi, autore della colonna sonora, si sbizzarriscono raggiungendo vette se possibile ancora più elevate che nel premiato Spirited Away (La città incantata). Attuale e concettualmente scevro da contaminazioni ideologiche di qualsivoglia natura, Howl,riesce ad essere pellicola antimilitarista, raffinato melò sentimentale, grande spettacolo di intrattenimento per tutti ed, in ultimo, saggio ammonimento sull'importanza delle relazioni interpersonali tra gli esseri umani. Venezia s'inchina. E noi altrettanto.
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Titolo Il ciclone
Anno 1996
Regista Leonardo Pieraccioni
Valutazione 6
Durata 94
Genere Commedia
Classificazione
Trama L'arrivo di un quintetto di saettanti ballerine spagnole di flamenco, scortate da due assistenti che fumano erba e da uno sciamannato impresario, turba il quieto tran-tran di un borgo della provincia toscana, scatenando in vario modo la libido dei maschietti nativi. 2° film di L. Pieraccioni che l'ha scritto, diretto e interpretato: simpatico, spesso salace, quasi mai scurrile, sorretto da un'affiatata recitazione di squadra, da un'intelligente scelta dei tempi comici, girato con garbo da un principiante che ha visto i film giusti e ha imparato la lezione. A. Haber si conferma principe dei caratteristi italiani. Campione d'incassi della stagione 1996-97 con 75 miliardi al botteghino.
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Titolo Il cigno nero
Anno 2010
Regista Darren Aronofsky
Valutazione 6
Durata 110
Genere Thriller
Classificazione
Trama Nina è una ballerina del New York City Ballet che sogna il ruolo della vita e un amore che spezzi l'incantesimo di un'adolescenza mai finita. Incalzata da una madre frustrata, si sottopone a un allenamento estenuante sotto lo sguardo esigente di Thomas Leroy. Coreografo appassionato e deciso a farne una fulgida stella, Leroy le assegna la parte della protagonista nella sua versione rinnovata del "Lago dei cigni". Sul palcoscenico Nina sarà Odette, principessa trasformata in cigno dal sortilegio del mago Rothbard, da cui potrà scioglierla soltanto il giuramento di un eterno amore. Eterea e piena di grazia Nina incarna alla perfezione il candore del cigno bianco e con difficoltà il suo doppio nero e tenebroso, che in una superba variazione ingannerà il suo principe e la voterà al suicidio. La ricerca ossessiva del suo lato oscuro e della consapevolezza della propria sessualità la condurranno verso una tempesta emozionale e all'incontro con Lily, insidiosa rivale in nero. Dietro le quinte Nina si strugge e si predispone a 'doppiare' il suo cigno bianco.
Due anni dopo l'incarnazione radicale trovata in The Wrestler e nel campione in disarmo di Mickey Rourke, il cinema di Darren Aronofsky mette in schermo una storia speculare. Fondato sullo stesso semplice "teorema", salire su un ring o sulle tavole del palcoscenico per esistere, Black Swan coglie questa volta la protagonista al debutto con la vita e nel ruolo della vita. Per essere, la Nina della Portman sarà obbligata a prendere un ascensore per l'inferno e a battersi col suo doppio fino a contemplarlo e a raggiungere con lui la perfezione. In aiuto del regista newyorkese interviene il balletto per antonomasia, un classico del teatro di danza, sintesi perfetta di composizione coreografica e lunare poesia tardo romantica, di chiarezza formale e inquietanti simboli psicoanalitici, che contrappone un cigno bianco (Odette) a un cigno nero (Odile) tra arabesque e attitude, tra fremiti nervosi di braccia e straordinari movimenti del corpo. E proprio tale prospettiva presta il fianco ad avvitamenti mentali, fluttuazioni interiori e metamorfosi corporali che mancano il segno, ostentando le smisurate ambizioni filosofiche dell'autore. I rapporti spaziali-geometrici tra i protagonisti e l'architettura viva e in movimento creata dal Corpo di Ballo, perfetta rifrazione e moltiplicazione di Odette, ispirano Black Swan e fondano la sua storia senza limiti e confini di genere. Dramma, mélo, thriller e horror si combinano sullo spazio scenico (ri)creato da Aronofsky e diviso in poli d'attrazione positivi e negativi che si annullano al centro nel momento dell'estasi amorosa di Odette e del suo principe, di Nina e del suo coreografo. Anche questa volta il regista mette al centro della scena un corpo, una donna alle prese con l'altro da sé, ossessione e oggetto di venerazione con cui cercare una possibile integrazione. Ma se a Mickey Rourke, saturo di carne e livido di pugni in faccia, è riuscita l'impresa del volo sul nero dell'epilogo, Natalie Portman fallisce la parabola e la verità del corpo, ricalcando la gestualità cignesca e crollando a terra.
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Titolo Il codice Da Vinci
Anno 2006
Regista Ron Howard
Valutazione 5
Durata 148
Genere Drammatico
Classificazione
Trama Il cadavere del curatore del Louvre viene trovato ricoperto di strani segni e nella posizione dell'uomo di Vitruvio di Leonardo Da Vinci. Delle scritte sul suo corpo coinvolgono Robert Langdon, un esperto di simbologia che insieme alla nipote del morto inizierà una ricerca che potrebbe portare a uno sconvolgimento della fede cristiana.
De Il Codice da Vinci si è detto e scritto a dismisura tanto da costruire un'attesa per il film decisamente al di là delle sue qualità. Ron Howard è un regista che ci ha offerto film interessanti come A Beautiful mind e Cinderella Man, ma oggi si presenta nei panni di un narratore di cinema di genere che ritma la sua caccia al tesoro con qualche lampo di violenza di troppo. Avrebbe potuto lavorare su quello che il romanzo offriva di interessante, come ad esempio la tensione verso un ruolo maggiore della donna nella Chiesa, invece si limita a seguire il plot di base. Le falsificazioni storiche di Dan Brown vengono collocate in flashback virati e tremolanti che sanno molto di posticcio, mentre i due protagonisti procedono di casella in casella come nel gioco dell'oca.
I credenti avevano motivo di temere questo film perché nel romanzo la tensione narrativa è sostenuta con una scrittura da autore di best seller consumato e se è vero come è vero che il cinema raggiunge masse che non hanno mai letto un libro in vita loro le ansie sono giustificate. Ma, come è scritto a premessa del libro, la storia è opera di fantasia: personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell'autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione e sullo schermo tutto ciò diventa assolutamente evidente. Tra il caveau di una banca e la cripta di una chiesa antica, mentre si descrivono i prelati come avrebbe potuto farlo un anticlericale romagnolo del secolo scorso, si dipana un thriller di discreta fattura con influssi di road movie. Ma davvero nulla di più.
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Titolo Il concerto
Anno 2009
Regista Radu Mihaileanu
Valutazione 7
Durata 120
Genere Commedia
Classificazione
Trama Andreï Filipov è un direttore d'orchestra deposto dalla politica di Brežnev e derubato della musica e della bacchetta. Rifiutatosi di licenziare la sua orchestra, composta principalmente da musicisti ebrei, è costretto da trent'anni a spolverare e a lucidare la scrivania del nuovo e ottuso direttore del Bolshoi. Un fax indirizzato alla direzione del teatro è destinato a cambiare il corso della sua esistenza. Il Théâtre du Châtelet ha invitato l'orchestra del Bolshoi a suonare a Parigi. Impossessatosi illecitamente dell'invito concepisce il suo riscatto di artista, riunendo i componenti della sua vecchia orchestra e conducendoli sul palcoscenico francese sotto mentite spoglie. Scordati e ammaccati dal tempo e dalla rinuncia coatta alla musica, i musicisti accoglieranno la chiamata agli strumenti, stringendosi intorno al loro direttore e al primo violino. La loro vita e il loro concerto riprenderà da dove il regime li aveva interrotti, accordando finalmente presente e passato.
Con Train de vie Radu Mihaileanu "addolcì" la Shoa, circondandola di un'aura pienamente fantastica e organizzando una finta "autodeportazione" per evitare quella reale dei nazisti. Il suo treno carico di ebrei fintamente deportati ed ebrei fintamente nazisti riusciva a varcare come in una favola il confine con la Russia. Ed è esattamente nella terra che prometteva uguaglianza, salvezza e integrazione, che "ritroviamo" gli ebrei di Mihaileanu, musicisti usurpati del palcoscenico e della musica a causa della loro ebraicità. È un film importante Il concerto perché racconta una storia ancora oggi sconosciuta, la condizione esistenziale degli ebrei che vissero per quarant'anni nel totalitarismo. Andreï Filipov e i suoi orchestrali sono idealmente prossimi agli artisti che durante il regime di Brežnev si macchiarono dell'onta infamante del dissenso e furono cacciati dal paese o dai luoghi dove esercitavano la loro arte con l'accusa di aver commesso atti antisovietici. Costretti a vivere (e a morire) nei campi di lavoro della dittatura brezneviana o additati di fronte al mondo e al loro Paese come parassiti sociali, i protagonisti del film riposero gli strumenti per trent'anni e ripiegarono su esistenze dimesse e mestieri svariati: facchini, commessi, uomini delle pulizie, conducenti di autoambulanza, doppiatori di hard movie. Il regista rumeno li sorprende in quella vita (ri)arrangiata e offre loro l'occasione del riscatto artistico e della reintegrazione nel loro ruolo. Come Gorbaciov, Mihaileanu restituisce alla Russia un patrimonio umano e intellettuale, concretato nel Concerto per Violino e Orchestra di Tchaikovsky, diretto da Filipov nell'epilogo e metafora evidente della relazione tra il singolo e la collettività. Positivo del negativo Wilhelm Furtwängler, celebre direttore della Filarmonica di Berlino convocato di fronte al Comitato Americano per la Denazificazione, l'Andreï Filipov di Alexeï Guskov è un fool, un'anima gentile dotata come lo Shlomo di Train de vie di un talento per l'arte della narrazione e della finzione, che conferma la predilezione del regista per l'impostura a fin di bene e contro la grandezza del Male. Ancora una volta è la musica ad accordare gli uomini. In un'amichevole gara musicale tra due etnie perseguitate (ebrei e gitani) o nella forma del Concerto per Violino e Orchestra, due sezioni che formano un'irrinunciabile unità emozionale.
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Titolo Il corsaro nero
Anno 1971
Regista Lorenzo Gicca Palli
Valutazione 5
Durata 99
Genere Comedy | Action | Adventure
Classificazione
Trama Rivaling Pirates and Spanish gold are the ingredients for this story. Blackie the pirate is the one who first hears from this shipment of gold when he encounters "Don" Pedro. He thinks of a plan to find this ship and its gold. His counter player is the vice roy of the Spanish kolony. When they visit one of the pirate settlements, they find three other pirate captains over there. One of them sells goods and prisoners from his latest capture. Don Pedro recognizes the wife of the vice roy, and Blackie buys her. However, one of the pirate captains, Skull, knows also who she is, and tries to make a deal. Blackie refuses, and Skull makes a deal with the other two pirate captains to plot against Blackie.

Written by
Ørnås
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Titolo Il cosmo sul comò
Anno 2008
Regista Marcello Cesena
Valutazione 4
Durata 100
Genere Commedia
Classificazione
Trama All’ombra di un ginko biloba Pin e Puk interrogano il maestro Tsu Nam sulla saggezza. "Colpiti" dai suoi insegnamenti e dal suo bastone di bambù, i discepoli sognano di raggiungere il nirvana e di suonare il gong che produce armonia, valanghe ed eruzioni. A Milano, intanto, è tempo di vacanze e Aldo, Giovanni e Giacomo hanno pianificato la partenza intelligente, diretti una volta di troppo alla stessa spiaggia e allo stesso mare. Un calcio ad un pallone e l’ammutinamento familiare sconvolgeranno il loro programma. Niente ferie o licenze per Padre Bruno che chiede a Dio la misericordia e ai fedeli l’obolo per la sua chiesa, corrotta dagli anni e defraudata da Mario, un sagrestano che "risparmia" le offerte per comprarsi la moto dei sogni. Non hanno invece bisogno di restauro i quadri del castello di Hogwarts, ritratti parlanti e sbeffeggianti che scivolano fuori dalla cornice per insediarsi in un’altra e conquistare una dama "con un ermellino". Nel mondo dei babbani Aldo e Giovanni giocano a calcetto e generano prole, soltanto Giacomo manca la porta e la rete. Tra medicina ayurvedica e calcolo della temperatura basale, cercherà di concepire il suo goal più bello.
Dopo la dimensione picaresca dell’attraversamento peninsulare, rigorosamente unidirezionale (Tre uomini e una gamba, Così è la vita e Tu la conosci Claudia?), Aldo, Giovanni e Giacomo circoscrivono il loro peregrinare a Milano, al suo Naviglio, al suo hinterland, al suo stadio. La metropoli, che serviva da trampolino al viaggio verso Sud (percorso di formazione e di ribellione a un’esistenza regolare e programmata), ospita tre dei cinque episodi e svolge tre storie in cui al solito AG&G sono antagonisti tra loro, dove la litigiosità supera la solidarietà e la voglia di fregarsi quella di soccorrersi. Se nella città lombarda, sempre troppo irreale e improbabile, il trio si limita a reiterare amicizia e cameratismo, personaggi affinati e gag collaudate, rituali ed esplosioni improvvise, più interessanti risultano gli episodi "in costume", effetti speciali, travestimenti e posticci ("Maestro Tsu Nam" e "Falsi prigionieri"), che spezzano per la prima volta l’indistinzione tra personaggio e interprete: AG&G nei loro film usano sempre i loro nomi.
Rimpiazzato il quarto moschettiere, Massimo Venier, con il cortigiano Marcello Cesena, il trio recupera la gag e la spiccia citazione cinefila, rinnegando la felice compattezza e fluidità del racconto raggiunte in Chiedimi se sono felice. Aldo, Giovanni e Giacomo sembrano ormai prigionieri dei propri clichè e delle loro maschere: Aldo sempre imbranato, ingenuo e fatalista, Giovanni ancora invischiato nella diffidente pragmaticità milanese e Giacomo irrimediabilmente saccente, noioso e pignolo. Sopraffatti dai loro personaggi, complici ideali della loro carriera, alterata la combinazione di cinismo e patetismo e smarrito lo splendore ritmico del loro cinema on the road, il trio "in gamba", giocoliere del doppio senso, non fa ridere (non più). Così è la vita. Così è il cinema, così va lo spettacolo, che insegna da sempre che è possibile ricominciare da zero, anzi da tre. Perché qualcosa di molto buono AG&G lo hanno già fatto.
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Titolo Il curioso caso di Benjamin Button
Anno 2008
Regista David Fincher
Valutazione 6
Durata 159
Genere Drammatico
Classificazione
Trama Benjamin Button nasce il giorno della fine della prima guerra mondiale, è un bimbo in fasce ma ha la salute di un novantenne: artrite, cataratta, sordità. Dovrebbe morire il giorno dopo e invece più passa il tempo più ringiovanisce. La sua è una vita al contrario che attraversa il Novecento americano sempre alla ricerca del primo e unico amore, una donna molto più emancipata, libera e in linea con il suo tempo di lui. L'unico momento in cui si potranno trovare sarà all'incrociarsi delle loro età: "Mi amerai ancora quando sarò vecchia?", chiede lei. "E tu mi amerai ancora quando avrò l'acne?" risponde lui.
Fincher sceglie di narrare una storia con un espediente classico: a partire dalla modernità, attraverso le memorie di un diario letto alla protagonista ormai anziana e in punto di morte. Fotografa tutto virando verso il seppia e opta per la calligrafia spinta, cosa che ovatta il racconto con l'indulgenza e il fascino di cui sono dotati i ricordi. Il risultato è un'agiografia del passato che vince sul presente (New Orleans ieri e oggi con Katrina alle porte), una prospettiva a ritroso indulgente e favolistica sugli Stati Uniti che non affronta nessun tema davvero e che, cosa bene più grave, manca di emozionare con sincerità.
Benjamin Button ringiovanisce invece di invecchiare ma questo non ha nessun effetto sulla trama nè tantomeno serve a dare una visione particolare degli eventi in cui è coinvolto o della società in cui è inserito, come avveniva invece con la stupidità di Forrest Gump (il paragone inaffrontabile con l'opera di Zemeckis sorge spontaneo data la sostanziale identità della struttura della storia).
Il curioso caso di Benjamin Button sembra chiedersi unicamente "Come si comporterebbe un vecchio con la testa di un bambino? E come un giovane con l'esperienza di un vecchio?", tentando di conseguenza una riflessione sulla morte e sulle possibilità di sfruttare al massimo la propria vita. "Non sai mai cosa c'è in serbo per te" ripete a Benjamin la madre adottiva, evitando accuratamente di citare scatole di cioccolatini.
Gigantesco il lavoro fatto sull'invecchiamento e il ringiovanimento digitali di Brad Pitt, entrambi ottenuti sperimentando una tecnica innovativa di motion capture. Il risultato è evidente: in ogni caso il personaggio è sempre lui, Brad Pitt, anche quando gli somiglia veramente poco. Meno celebrata invece Cate Blanchett che, invecchiata e ringiovanita anch'essa per esigenze di copione, supplisce alla frequente mancanza di digitale con la solita prestazione fuori da ogni ordinarietà.
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Titolo Il dubbio
Anno 2008
Regista John Patrick Shanley
Valutazione 7
Durata 104
Genere Drammatico
Classificazione
Trama 1964. Bronx. Il collegio della parrocchia di St. Nicholas ha al suo centro due forti personalità. Padre Flynn, il parroco, è un innovatore che cerca di sostenere gli allievi più in difficoltà e, in particolare, l'unico studente di colore della scuola, Donald Miller. Il ragazzo è stato iscritto dalla madre, contro il volere del marito violento, per sottrarlo ai pericoli della scuola pubblica. L'altro, rigido, pilastro della comunità è Sorella Aloysius Beauvier, la superiora dell'ordine le cui consorelle insegnano nell'istituto. Sorella Aloysius è una strenua conservatrice dell'ordine e del rigore e spaventa a morte tutti gli allievi. Un giorno però, in seguito ad alcune osservazioni sul comportamento di Donald riferitele dalla più giovane e candida delle suore Sorella James, comincia a nutrire il dubbio che le attenzioni di Padre Flynn per il ragazzo non siano solo altruistiche.
Un'avvertenza: chi non ama il buon vecchio cinema di una volta quello, per capirsi, con bravi attori, sceneggiature di ferro e modi di ripresa convenzionali, è pregato di astenersi. Chi poi dà già per scontato che un film con preti e suore non possa trattare altro che argomenti o stucchevoli o fuori tempo massimo farà bene a fare altrettanto. Oppure decida di assumersi il rischio della visione. Potrebbe cambiare opinione.
Perché Il dubbio, pur denunciando la sua origine teatrale, si salva dalle sabbie mobili della trasposizione (considerando che il regista è l'autore della piece) grazie alle prestazioni dei tre protagonisti e a una sceneggiatura che esula (e così facendo se ne avvantaggia) dai richiami all'attualità. Perché la piaga della pedofilia nelle istituzioni religiose non è sicuramente (e purtroppo) circoscritta agli Stati Uniti ma è lì che è esplosa con maggiore virulenza al punto di spingere la Chiesa a fare pubblica ammenda.
Shanley si dimostra però interessato a tematiche diverse e più complesse. Il film non si risolve quindi in una detection sulla colpevolezza o meno di Padre Flynn o sulla forza dei pregiudizi di Sorella Aloysius. Il contrasto e la difficoltà di discernimento stanno soprattutto altrove.
Non a caso la vicenda ha inizio l'anno successivo all'uccisione di John Fitzgerald Kennedy. Il trauma nella società è stato forte ma nel mondo qualcosa sta mutando per sempre. Lo testimonia la foto del 'papa morto' (Pio XII) che ormai viene usata per vedere il riflesso della classe quando l'insegnante è voltata verso la lavagna ma che la superiora non ha sostituito con quella del papa del Concilio. Il film non si limita ad affrontare il tema del rinnovamento della Chiesa negli Anni Sessanta ma va oltre affrontando il nodo della complessità della lettura della realtà. È sufficiente essere progressisti per liberarsi d'ufficio da qualsiasi possibilità di errore? Al contrario: chi è favorevole alla conservazione ha il diritto di leggere in chiave solo negativa i comportamenti che non si confanno alla norma e si ispirano invece a un'umanità più vicina agli ultimi?
Sono solo alcuni dei quesiti che il film pone lasciando poi allo spettatore il compito di dare una risposta sulla base delle proprie convinzioni o (perché no?) dei propri dubbi.
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Titolo Il falsario - Operazione Bernhard
Anno 2007
Regista Stefan Ruzowitzky
Valutazione 7
Durata 98
Genere Drammatico
Classificazione
Trama Berlino 1936. Sorowitsch è il re dei falsificatori ed è ebreo. La sua vita cambia quando viene portato a Mauthausen e da lì trasferito, per la sua competenza, in un campo privilegiato insieme ad altri tecnici della falsificazione. Dovranno produrre valuta pregiata falsa per sostenere le casse ormai vuote del Reich. Sorowitsch inizialmente non si pone problemi: ha trovato il modo di sopravvivere e di esercitare la propria 'arte'. Progressivamente uno dei suoi privilegiati compagni di prigionia lo pone dinanzi al dilemma: continuare a falsificare denaro favorendo il nazismo o boicottare l'operazione mettendo a repentaglio le proprie vite?
"Era un ebreo ma è morto da uomo" dice a un certo punto del film un nazista. In questa frase si racchiude parte del senso del film. Dinanzi ai nazisti che non li ritengono esseri umani gli ebrei possono scegliere tra la dignità e il servilismo. Il rapporto tra Sorowitsch e il comandante del campo Herzog offre spazio per la riflessione sul regime in caduta libera. Herzog, che è stato comunista, ora indossa una divisa nazista ma non ha più alcuna ideologia. Il suo obiettivo è analogo a quello delle sue vittime: salvarsi.
Grazie a questo film, ottimamente recitato dal protagonista Karl Markovics, è anche possibile sviluppare un'ulteriore riflessione sul cinema austriaco. Ogni anno la Berlinale offre film di produzione germanica che tornano ad affrontare il nodo del nazismo. Non è forse ora che il cinema tedesco e quello austriaco tornino a guardare avanti liberandosi di quello che sta ormai diventando un senso di colpa che le nuove generazioni non possono addossarsi per l'eternità. È come se il mondo del cinema sentisse di non aver ancora battuto sul proprio petto un mea culpa abbastanza convincente. Invece lo ha già fatto con film anche di ottimo valore cinematografico ed etico. Ora si corre il rischio della saturazione che può ottenere un esito uguale e opposto a quello della rimozione.
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Titolo Il gatto con gli stivali 3D
Anno
Regista
Valutazione 6
Durata
Genere
Classificazione
Trama La vera storia del Gatto con gli Stivali, noto combattente, seduttore e fuorilegge che si trasformerà in eroe per salvare la sua città. L'impresa sarà messa in serio pericolo dai famigerati fuorilegge Jack e Jill, ma il prode felino avrà al suo fianco la tosta e intelligente gattina di strada Kitty Zampe Di Velluto e il cervellone Humpty Dumpty.
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Titolo Il giro del mondo in 80 giorni
Anno 2004
Regista Frank Coraci
Valutazione 6
Durata 120
Genere Avventura
Classificazione
Trama Verne in salsa kung-fu? Ma sì, perché no, abbiamo anche visto di peggio. Jackie Chan produce ed interpreta (ma oramai le memorabili sequenze di combattimento sono davvero un ricordo), Coraci dirige senza guizzi, tutto il film è nei numerosi camei sparsi per tutta la durata della pellicola. Il più famoso, quello del GOVERNATORE Shwarzenegger, è da antologia del trash e fa piacere sapere che sia stato realizzato prima e non dopo l'elezione. Meno memorabile ma più appagante per i fan il ritorno del grandissimo Sammo Hung, in scena con Chan dopo lunghi anni (e quanti grandi film fecero assieme ai tempi di Hong-Kong). Attenzione a Steve Coogan e Cécile De France (già vista e premiata ne L'appartamento spagnolo) perché potrebbero fare strada anche ad Hollywood. Remake sostanzialmente inutile, noiosetto quanto l'originale, che a parte David Niven non è che fosse poi questo granché, Il giro del mondo in 80 giorni è la classica pellicola che si dimentica appena accese le luci nella sala in cui è proiettata, ma per due ore qualche risata la strappa: il cast è simpatico e mattacchione ed è un ottimo modo per vedere dal vivo, senza che siano ricostruiti al computer, gli splendidi scenari del west americano e della Cina. C'è pure un premio Oscar (Jim Broadbent), impossibile chiedere di più.
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Titolo Il mago di Oz
Anno
Regista Victor Fleming
Valutazione 8
Durata
Genere
Classificazione
Trama Dorothy vive in una fattoria del Kansas. Improvvisamente un terribile tornado si abbatte su di lei, trascinandola insieme alla sua casa e al suo cane Toto nel mondo del mago di Oz. Qui tutto è bellissimo, ma la piccola Dorothy vuole lo stesso ritornare a casa al più presto....