Elenco dei film di Griffith

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Titolo La casa dei fantasmi
Titolo originale Haunted Mansion, The
Anno 2003
Regista Rob Minkoff
Durata 90
Paese USA
Genere commedia, family, horror
Trama Jim Evers e la moglie Sara, entrambi agenti immobiliari e soci in affari, stanno per avere il più grosso successo della loro carriera. O almeno è quello che pensano loro. Una notte ricevono una telefonata da un certo Edward Gracey che li invita a visitare una casa signorile risalente alla Guerra di Secessione. Jim e Sara decidono di andare a dare un'occhiata e partono alla volta dell'antico maniero insieme ai due figli. Giunta sul posto, la famiglia Evers non solo fa la conoscenza del malinconico ed eccentrico Gracey, ma si trova a fare i conti con gli altri inquilini della casa: 999 spettri...Note - DINA SPYBEY E' ACCREDITATA COME DINA WATERS.- EFFETTI SPECIALI DI TRUCCO: RICK BAKER.Critica "Destinato ormai a essere il comico di fiducia dei minorenni, dopo essere stato quello ridarolo e sboccato della black audience negli anni 80, Eddie Murphy sceglie la favola horror in equilibrio delicato tra sorrisi e paura, effetti speciali e spiriti in una storia dalle radici fortemente sentimentali. (...) Ispirato dalla Disney da un cartoon del '29 e dai viaggi tra i fantasmi dei suoi parchi, il film di Rob Minkoff, autore caro all' infanzia per 'Il re Leone' e 'Stuart Little', è un elenco di cigolanti stereotipi del genere, con suoni d'organo e lo spiritato, imbarazzante Terence Stamp maggiordomo. Risate e paure frenate, nonostante il lavoro dell' esperto di trucchi Rick Baker che spesso, fortuna, fa dimenticare i dialoghi." (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 10 aprile 2004)
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Titolo Il castello errante di Howl
Titolo originale Hauru No Ugoku Shiro
Anno 2004
Regista Hayao Miyazaki
Durata 119
Paese GIAPPONE
Genere animazione, fantascienza, sentimentale
Trama La giovane Sophie ha diciotto anni e lavora instancabilmente nel negozio di cappelli che apparteneva a suo padre, ormai defunto. In una delle sue rare uscite, viene importunata da alcuni soldati e salvata dal Mago Howl, uno stregone di rara bellezza e grande fascino,ma che è un po' smidollato e codardo. La perfida Strega delle Lande, che è invaghita dello stregone e desidera possederne il cuore, gelosa di Sophie la trasforma in una rugosa novantenne. A Sophie non resta che scappare di casa e iniziare a vagare senza meta per terre desolate alla ricerca di chi possa spezzare il maleficio di cui è vittima. Trova riparo nel Castello mobile di Howl e, nascondendogli la sua vera identità, si fa assumere dallo stregone come donna delle pulizie, scoprendo così i segreti del castello e dando nuova vita alla vecchia dimora in cui abitano soltanto il giovane apprendista Markol e Calcifer, il demone del fuoco. Quale destino e quante avventure attendono Sophie prima di poter tornare ad essere quella di prima? Qual è la maledizione di cui è vittima il mago?Note - PRESENTATO IN CONCORSO ALLA 61MA MOSTRA INTERNAZIONALE DEL CINEMA DI VENEZIA (2004).- NOMINATIONS OSCAR 2006: MIGLIOR FILM D'ANIMAZIONE.Critica "Continuando ad arruolare lungometraggi d'animazione, i festival si sono procurati un'ottima uscita di sicurezza. La Mostra di Croff & Muller, felicissima nel rianimare la calma piatta del Lido e nell'arricchire il cartellone delle più diverse mercanzie di celluloide, stava peraltro arrancando nel cruciale settore del concorso; ma ieri, grazie al maestro del cartoon Hayao Miyazaki, è finalmente sbucato dal gruppo un degno aspirante al Leone d'oro. Con 'Il castello magico di Howl', infatti, il sessantatreenne regista di Tokyo, autore di classici come 'Lupin III: il castello di Cagliostro', 'Nausica della valle del vento', 'La principessa Mononoke' e 'La città incantata' (Orso d'oro a Berlino 2002 e Oscar 2003 come miglior film d'animazione), si conferma un genio della fiaba neo-umanistica e un accanito paladino del diritto all'utopia visionaria. Rielaborando per lo schermo il libro più noto dell'inglese Diana Wynne Jones 'Howl's Moving Castle', Miyazaki trova terreno fertile per il suo gusto dell'iperbole onirica e della metamorfosi psicosomatica e regala agli spettatori di ogni età due ore piene d'incantevole, ma mai facile o melensa fantasia. Senza dover impiantare la solita, odiosa e inutile querelle contro il modello disneyano-hollywoodiano, è chiaro che Miyazaki funziona da testa di ponte per la definitiva assunzione di tutta una cultura e una tecnica nell'empireo cinematografico fantasy." (Valerio Caprara, 'Il Mattino', 6 settembre 2004)"Nel nuovo film animato di Miyazaki convivono tradizione e sorprese. Torna l'impagabile mix di fantasticheria, romanticismo e comicità: come si ripresenta lo straordinario lavoro sul colore, le luci e le ombre che rende quello del regista di Tokio un universo totalmente a parte. La sorpresa riguarda il disegno. Se i personaggi principali osservano i rigidi canoni tipologici giapponesi, nelle scenografie e nelle comparse Miyazaki rende invece un inaspettato omaggio al meglio della tradizione iconografica occidentale, da 'Little Nemo' alle tavole del fumetto belga di Hergé e del 'Professor Mortimer'." (Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 6 settembre 2004)"Questa parabola sulla terza età e sull'arte di affrontarla senza troppe ansie si estende su 250 pagine in forma quasi sempre letificante, anche se appesantito da divagazioni che il film riesce solo in parte a sbrogliare. Il problema è se il premiato Miyazaki, 64enne con alle spalle una lunga carriera, è da considerare un grande illustratore o un autore in proprio. Personalmente di lui ho preferito 'La principessa Mononoke', Orso d' oro a Berlino, perché legato alle tradizioni e alla cultura del suo paese. Howl rappresenta un passo fuori dall' ambito nipponico, forse un adeguamento alle esigenze del mercato nel momento in cui molti territori si sono aperti a un disegno giapponese che fa dimenticare le trasandatezze dei mostri e dei robot. Maturato in polemica con la svendita televisiva dell' animazione, il segno di Miyazaki è pulito e spiritoso. L' inevitabile riferimento allo stile Disney è riscattato dalla forza di una visione fantastica personalissima che si realizza nel modo più felice soprattutto nei personaggini di Calcifer demone del fuoco e di Rapa spaventapasseri quasi umano." (Tullio Kezich, 'Corriere della Sera', 9 settembre 2005)"A sessantaquattro anni Hayao Miyazaki continua a sognare (e a disegnare con fantasioso furore) città invisibili in cui si può entrare per distrazione, ma da cui fuggire è maledettamente difficile. Come nella saga di Matrix, ogni porta si può spalancare sull'infinito. Onorato a Venezia con un Leone d'oro alla carriera, Miyazaki conferma le sue favolose virtù nello struggente 'Il castello errante di Howl'". (Claudio Carabba, CdS Magazine, settembre 2005)
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Titolo Lo spaccacuori
Titolo originale Heartbreak Kid, The
Anno 2007
Regista Bobby Farrelly Peter Farrelly
Durata 115
Paese USA
Genere commedia, drammatico, romantico
Trama Temendo che questa sia la sua ultima occasione in amore, Eddie ha commesso un grave errore: dopo appena una settimana di frequentazione ha chiesto alla bella ed affascinante Lila di diventare sua moglie. Così, nonostante l'opera di dissuasione messa in atto da suo padre e dal suo migliore amico, Eddie e Lila sono ora marito e moglie pronti a partire per la luna di miele in Messico. Tuttavia, durante il viaggio di nozze la ragazza mostra il suo vero, impossibile, carattere ed Eddie inizia a pentirsi della sua decisione troppo affrettata. Ad aggiungere confusione nella già triste condizione di Eddie interviene Miranda, una donna che si rivela la sua vera anima gemella. Come può ora conquistare la donna dei suoi sogni senza che la detestabile moglie se ne accorga?Note - REMAKE DEL FILM "IL ROMPICUORI" (1972) SCRITTO DA NEIL SIMON E DIRETTO DA ELAINE MAY.- LA REVISIONE MINISTERIALE DEL 18 AGOSTO 2009 HA ELIMINATO IL DIVIETO AI MINORI DI 14 ANNI.Critica "Tra mariachi invadenti, gemelli pettegoli, equivoci da videocassette hard, malintesi su una moglie morta massacrata. 'Tutti pazzi per Mary' è ormai un ricordo. Qualcosa si è inceppato nel meccanismo comico dei Farrelly. Al punto che sarebbe sufficiente guardare il trailer dello 'Spaccacuori'. Curioso poi che negli Usa, in un modo o nell'altro, si siano riscoperti i quarantenni imbranati, deboli nei confronti degli amici e dei genitori, subalterni nei confronti delle donne che incontrano, nel senso che proprio vengono costantemente tartassati. Ma non si tratta di critica ai machismo, solo di un escamotage per estorcere qualche sorriso a buon mercato. La commedia hollywoodiana recente è popolata da uomini imbranatissimi e da un'infinità di donne in attesa di prole, così ogni trasgressione sarà punita, dalle convenzioni e da un conservatorismo di fondo che sembra aleggiare tra i copioni." (Antonello Catacchio, 'Il Manifesto', 9 novembre 2007)"Ai Farrelly interessa riaggiornare la storiella con un impianto di gag visive demenziali che sono il loro marchio di fabbrica, ma l'ancoraggio alla correttezza di un testo convenzionale non permette loro di essere filosoficamente irriverenti. La degenerazione, quando avviene, avviene in fondo pagina, in nota, come delirio schizzato di fine scena. Così tutto il coté di politicamente scorretto sulle comparse messicane o anche solo della presentazione della madre obesa di Lila, paiono forzature non richieste o, ancor peggio, concesse per pietà da produttori furbacchioni. Si salva solo la trovata del tavolo dei single, dopo neanche dieci minuti di film, quando ancora pare che i codici del comico-demenziale siano forma e contenuto dell'opera, come i Farrelly ci avevano abituati con sgorbi capolavori modello 'Fratelli per la pelle'." (Davide Turrini, 'Liberazione', 9 novembre 2007)"I fratelli Farrelly e Ben Stiller sono stati fonte di grossi incassi con una formula volgare, ispirata alla commedia erotica italiana: quella di 'Tutti pazzi per Mary'. Saggiamente ora riducono molto la volgarità nello 'Spaccacuori', rifacimento del 'Rompicuori' di Elaine May (1972), tratto da una commedia di Neil Simon; sfortunatamente riducono molto anche il brio ribaldo. Morale: 'Lo spaccacuori' è meno lutulento, ma è più prevedibile. Restano a sostenere il film la bravura scontata di Stiller e la bellezza di Michelle Monaghan, nel ruolo della donna che lo fa innamorare, ma non è libera quando è libero lui (o viceversa). In sostanza 'Lo spaccacuori' sfrutta l'incontinenza sessuale maschile, scambiata più o meno consapevolmente per amore, e il suo corrispettivo, l'infatuazione femminile: quanti matrimoni derivano da questo fluido che ben presto s'esaurisce? In quel momento cade la mimesi femminile, dunque l'assiduità maschile ... I Farrelly non vogliono esser acuti, temendo di spaventare gli spettatori, visto che i loro non sono certo quelli del Woody Allen d'una volta. Così si resta a mezza strada." (Maurizio Cabona, 'Il Giornale', 9 novembre 2007)"'Lo spaccacuori' di oggi, un preoccupato Ben Stiller che in luna di miele s'innamora della presunta donna della sua vita, sarebbe poi il 'Rompicuori' Charles Grodin, cui accadeva più o meno lo stesso nel ciclone sentimentale del '72, ma diretto da Elaine May. La differenza è che allora c'era la sceneggiatura del grande Neil Simon a sostenere la feroce parodia degli affetti, soprattutto nella versione americana usa e getta in umorismo yiddish, mentre i fratelli Farrelly, abbonati alla comicità trash popcorn, consumano la parodia del cinismo maschile in uno spottone per un ripetitivo Stiller cartoon.(...) una commedia ad equivoci fiacchi in cui le situazioni sono annunciate e il ritmo somiglia a quello d'una innocua pochade con cartoline da spiaggia, mai alla satira." (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 9 novembre 2007)"Vedere Stiller soffrire è sempre un godimento ma in questo film, tranne i primi 20 minuti che lo vedono in difficoltà (al matrimonio lo mettono al tavolo dei single: tutti bambini sarcastici), il nostro eroe se la spassa per poi tornare a vedere i sorci verdi come emigrante confuso tra i messicani in un finale appiccicato male. (...) Film per bambini. Non particolarmente spiritosi." (Francesco Alò, 'Il Messaggero', 9 novembre 2007)
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Titolo Lui, lei e Babydog
Titolo originale Heavy Petting
Anno 2007
Regista Marcel Sarmiento
Durata 98
Paese USA
Genere commedia
Trama Charlie ha finalmente incontrato la ragaza dei suoi sogni: Daphne. Tra loro potrebbe nascere una bella storia d'amore, ma il ragazzo ha trovato nel cane di lei, Babydoll, un agguerrito avversario e l'unica condizione per continuare a uscire con Daphne è che Charlie e Babydoll diventino amici...
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Titolo Hellboy: The Golden Army
Titolo originale Hellboy: The Golden Army
Anno 2008
Regista Guillermo del Toro
Durata 110
Paese USA
Genere avventura, azione, fantascienza, fantasy, horror
Trama Mentre cerca di abituarsi alla difficile convivenza con la pirocinetica fidanzata Liz, il supereroe Hellboy, insieme al team dell'Istituto per la Ricerca e Difesa del Paranormale (noto anche come B.P.R.D.), è chiamato a difendere gli umani dall'attacco di alcune creature mitiche capeggiate dal principe Nuada. Infatti, dopo aver ucciso suo padre ed essersi impossessato della mappa per risvegliare l'Esercito d'Oro, uno stuolo di macchine assassine a lungo sopite, Nuada rompe l'antica tregua e si appresta a governare sulla terra. Per combattere questa battaglia, il B.P.R.D. si troverà a viaggiare tra gli strati superficiali della terra, abitati dagli umani, e quelli magici sotterranei in cui regnano le creature della fantasia. E lo stesso Hellboy sarà chiamato a prendere una difficile decisione: appartenente a entrambi i mondi, ma emarginato da tutti e due, deve scegliere tra la vita che conosce e un ignoto destino da cui si sente attratto.Note - CANDIDATO ALL'OSCAR 2009 PER IL MIGLIOR TRUCCO.Critica "Basato sul comic di Mike Mignola, cosceneggiatore con Del Toro, il film condisce la trama simile ad altre con scene d'azione e avventure rocambolesche realizzate a forza di effetti speciali, ma è la fantasia visiva di Del Toro, la bravura degli attori e la ricchezza delle trovate a rendere il film così speciale e divertente. E c'è un bel colpo di teatro quando, entrambi ubriachi, lo spaccamontagne Hellboy e il mozartiano Abe intonano in duetto una canzoncina d'amore." (Alessandra Levantesi, 'La Stampa', 18 luglio 2008)"Se c'è una cosa azzeccata, e perfino un po' geniale, in 'Hellboy: the golden Army' è che il film di Guillermo Del Toro non ha niente di umano. A differenza di tanti kolossal a effetti speciali, che si prendono molto sul serio, la seconda parte della saga dedicata al demone rosso generato dai fumetti di Mike Mignola è una fiaba: dark fin che si vuole, però una fiaba completamente abitata da strane creature, fracassona ma con inserti romantici e perfino melanconici e così 'fantastica' che gli umani c'entrano poco e niente." (Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 18 luglio 2008)"Mai sequel fu più indovinato. Forse l'Indiana Jones de 'Il tempio maledetto' potrebbe fare a gara, per sapiente continuità e rimpolpamento dell'originale, con il fortunatissimo 'Hellboy due' . Il messicano Guillermo Del Toro, regista, sceneggiatore e amalgamatore di dolenti anime supereroiche e squarci di malinconiche tenebre, sa riprendere la sua trasposizione datata 2004 delle strisce a fumetti di Mike Mignola. (...) Proprio nel ricostruire la sottile membrana che separa i due mondi, dandole un tocco di delicata poetica e di sobillanti sfumature di senso filosofico Del Toro sa mettere in immagini una sicura e precisa vena espressiva. I cattivi che risalgono dal basso e mettono a ferro e fuoco il pianeta, e che Hellboy dovrebbe difendere tra gli improperi di ingrati cittadini americani, non hanno poi tutti i torti nelle loro invettive antisistema. Il principe Nuada, protagonista palliduccio ma tanto furioso del nuovo episodio, reclama la sua terra che gli umani tra parcheggi e centri commerciali stanno distruggendo; poi intima ad un vezzoso salone di partecipanti ad un'asta lussuosa: 'arroganti e falsi che non siete altri un tempo temevate le tenebre. Io sono qui per ricordarvelo'. Lo stesso Hellboy, pur essendo americanamente «in missione per conto di dio», non ha sempre tutto questo entusiasmo nello stare dalla parte dei cosiddetti buoni. Così emerge la forza e la densità di un immaginario cinematografico dichiaratamente politico e alternativo rispetto al genere delle comics-adventures: i supereroi non sono decisi a tutto anzi tentennano nel ricoprire il ruolo di esempi senza macchia, perfino tra ubriacature e cantate in compagnia per superare le crisi di coppia." (Boris Sollazzo,'Liberazione', 18 luglio 2008) "Già regista del primo 'Hellboy', il messicano si scatena con più mezzi, più fiducia da parte dello studio, più possibilità di approfondire i personaggi. Irritato dal fatto di non poter urlare ai quattro venti la sua identità di demoniaco agente governativo, il nostro mostro Hellboy dovrà fronteggiare in questa avventura un principe degli elfi arrabbiato, una fidanzata incinta e le solite pastoie burocratiche che minano il funzionamento dell'Ufficio segreto per la ricerca sul paranormale e la difesa. Lui è sempre lo stesso: sigaro, pistolone, carnagione rosso fuoco, trench, corna arrotate e caratteraccio. Per cambiare la sua vita, diventare un buon padre e salvare il mondo dall'armata di automi micidiali risvegliati dall'elfo arrabbiato, Hellboy dovrà imparare che la riflessione viene prima dell'azione. Ricetta Del Toro: personaggi straordinari in situazioni straordinarie. Il film è un'orgia di creature fantastiche, oggetti mirabolanti, duelli acrobatici e deliri fantasy da capogiro. Del Toro è pronto per andare a conquistare la Terra di Mezzo. Prontissimo." (Francesco Alò, 'Il Messaggero', 18 luglio 2008)
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Titolo High School Musical 2
Titolo originale High School Musical 2
Anno 2007
Regista Kenny Ortega
Durata 104
Paese USA
Genere commedia, film tv, musicale
Trama Finita la scuola, Troy trova un lavoro estivo al Lava Springs Country Club di proprietà della famiglia di Ryan e Sharpay. Grazie a lui, in seguito anche Gabrielle e gli altri Wildcats vengono assunti. Nel frattempo Sharpay, convinta di conquistare Troy, lo presenta ai suoi genitori, cerca di fargli ottenere una borsa di studio per meriti sportivi e lo fa entrare nel cast dello spettacolo che si terrà al club. Tutte queste attenzioni porteranno Troy ad allontanarsi dai suoi amici e da Gabrielle, ma ben presto si renderà conto che i Wildcats valgono molto più di una borsa di studio o di uno spettacolo.
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Titolo Guida galattica per autostoppisti
Titolo originale Hitchhiker's Guide To The Galaxy, The
Anno 2005
Regista Garth Jennings
Durata 109
Paese USA, GRAN BRETAGNA
Genere avventura, commedia
Trama Arthur Dent è un tranquillo abitante del pianeta Terra che non si è mai chiesto cosa ci sia oltre la galassia e che improvvisamente si trova a vivere il giorno peggiore e più sconvolgente della sua vita. Una mattina scopre che la sua casa sta per essere abbattuta da un bulldozer, il suo miglior amico in realtà è un extraterrestre in missione sulla terra e il Pianeta Terra sta per essere distrutto. L'unica speranza che gli resta è fuggire via prima che sia troppo tardi. Un esilarante e rocambolesco viaggio per lo spazio farà comprendere ad Arthur il senso della vita e che nell'universo non c'è niente di più utile di un asciugamani e infine che le regole per sopravvivere sono tutte inserite nella "Guida galattica per autostoppisti"...Note - PRESENTATO IN ANTEPRIMA IL 1 GIUGNO 2005 AL CINEMA LUMIERE A BOLOGNA NEL CORSO DEL BIOGRAFILM FESTIVAL.
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Titolo L'uomo senza ombra
Titolo originale Hollow Man
Anno 2000
Regista Paul Verhoeven
Durata 112
Paese USA
Genere thriller
Trama Sebastian Caine, scienziato, sta facendo una ricerca sull'invisibilità per conto dell'esercito americano. Dopo i test positivi sulle cavie decide di provare lui stesso, ma il processo si rivela irreversibile e lo scienziato, diventato invisibile, subisce anche una trasformazione del carattere diventando un essere molto pericoloso.TRAMA LUNGALo scienziato Sebastiane Caine, tanto apprezzato per le sue intuizioni quanto discusso per il carattere arrogante, è giustamente soddisfatto: il Pentagono gli aveva affidato una ricerca su un siero che rende invisibili, e lui è convinto di aver trovato la formula giusta. Gli esperimenti su alcuni animali offrono la conferma, e nel gruppo di lavoro c'è molto entusiasmo. Ignorando gli ordini del Pentagono e i consigli dei suoi assistenti, Caine decide di provare la formula su se stesso per potersi attribuire in pieno il merito del successo. Ma quasi subito la situazione va fuori controllo. L'esperimento di 'ritorno' dall'invisibilità non riesce: Caine parla, ascolta ma per farsi vedere indossa una maschera che gli disegna il volto. Consapevole tuttavia di trovarsi in una posizione di forza, Caine ben presto si lascia andare alle pulsioni che più lo attirano. I bersagli sono i suoi assistenti, soprattutto Linda, sua ex ragazza ora impegnata con Matthew. Nonostante tutti si alternino nella sua sorveglianza, Caine fa quello che vuole: esce dal laboratorio, insidia altre donne, va a casa di Linda, rientra, comincia a seminare il panico. Il gruppo capisce che il disegno di Caine è quello di eliminare i componenti uno per uno. Così succede con quattro persone, brutalmente uccise. Linda e Matthew lo affrontano per ultimi. Dopo una lotta cruenta, Caine rimane imprigionato nelle fiamme e scompare. Il pericolo è scongiurato. Note - CANDIDATO AGLI OSCAR 2001 NELLA SEZIONE MIGLIORI EFFETTI VISIVI.Critica "Paul Verhoeven aveva molti autorevoli precedenti quando ha deciso di girare 'L'uomo senza ombra', ma non se ne è preoccupato: in fondo questa favola rientra nella sua poetica allucinata, capace di giovare con il corpo umano, correndo sul filo della tensione paurosa ('Robocop', 'Atto di forza') o del brivido erotico ('Basic Instict'). (...) Alla fine del sentiero sarà sempre la paura il sentimento dominante, la morte la stazione più probabile. Come coloro che tornano dalla tomba, o i fantasmi sepolti nell'incendio dell'Opera, anche gli uomini che hanno perso il loro corpo possono incattivirsi e impazzire, simboli dolenti di una solitudine e di una diversità esasperata". (Claudio Carabba, 'Carnet', settembre 2000)Tra i grandi miti della letteratura e del cinema "fantastico", il mito dell'uomo invisibile si colloca più dalla parte del mostro di Frankenstein che da quella del vampiro: rientra, cioè, in un immaginario a base non metafisica ma scientifica, che ha per oggetto la scienza con relativi pericoli e perversioni. Al cinema ha avuto meno fortuna di altri miti, e per ovvie ragioni (non è facile fotografare l'invisibile), però nel 1933 ha dato origine ha un piccolo capolavoro diretto da James Whale. Ultimo rampollo della dinastia, il protagonista dell'Uomo senza ombra di Paul Verhoeven è Sebastian Caine (Kevin Bacon), giovane scienziato di genio che dirige un progetto di ricerca sull'invisibilità finanziato dal Pentagono. Dopo il successo di una serie di prove ai danni innocenti scimmie, Caine decide di sperimentare il siero sulla propria pelle; come finisce per fare ogni mad doctor che si rispetti, dal dottor Jeckyll all'uomo-mosca. "Ti credi Dio e vuoi sfidare la natura, ma verrai punito" lo prende in giro un membro della sua équipe, facendo la parodia di un tema forte del genere "fantastico": quello dello scienziato contagiato da sindrome di onnipotenza al punto di prendersi per il Creatore. Una volta smaterializzato, Sebastian, che era già arrogante e antipatico sotto specie visibile, diventa un mostro: scappa nottetempo dal laboratorio, aggredisce le ragazze e massacra chi pensa voglia ostacolarlo, a cominciare dai suoi capi e collaboratori. In proposito Verhoeven e lo sceneggiatore, Andrew Marlowe, citano la Repubblica di Platone: meglio non possedere l'invisibilità, che ci spingerebbe a sfogare i nostri istinti repressi. Assai più che i problemi etica della scienza, però, a Verhoeven interessa l'efficacia spettacolare. Le esigenze dell'azione prevalgono largamente sui possibili aspetti problematici o psicologici; tanto che le sequenze (l'aggressione dell'uomo invisibile alla vicina, la lotta nella piscina e tutta la parte finale) sono chiaramente scelte in funzione del potenziale spettacolare; talvolta, anche a prezzo di qualche debolezza di sceneggiatura. Nell'epilogo full-action, chi di scienza ferisce di scienza perisce. Caine è innamorato della collega Linda McKay (Elizabeth Shue), che lo ha lasciato e ora fa coppia con un altro membro del gruppo: sarà proprio la bella dottoressa a sconfiggere il mostro, unendo cognizioni scientifiche, coraggio e capacità di menare le mani, nella linea delle eroine cinematografiche da Alien a Terminator (la serie di James Cameron è evocata ripetutamente del film di Verhoeven: apparente immortalità del mostro, effetto morphing eccetera). Solitamente attore di secondi ruoli, Kevin Bacon sarà stato contento di sentirsi offrire la parte del protagonista. Ma c'era il trucco, come nei patti col Diavolo: dopo mezz'ora il povero Kevin perde definitivamente il corpo, sostituito da un intero repertorio di effetti speciali. E abbandona il campo a Elizabeth, che maneggia fiamme ossidriche, scansa ascensori infuocati e si appende a cavi nel vuoto come da uno scienziato, salvo Indiana Jones, non ci aspetteremmo. L'uomo invisibile non è un fantasy destinato al pubblico infantile. Almeno per due ragioni: le impressionanti sequenze di scarnificazione da una parte, dall'altra la sessualizzazione del soggetto dell'invisibilità, finora trattato in modi più allusivi ed eufemistici. La cosa non può meravigliare i fan di Verhoeven, nella cui filmografia i titoli di genere fantastico (Robocop, Atto di forza, Starship Troopers) sono alternati con altri circondati, a suo tempo, da un alone di scandalo come Basic Instinct o Showgirls. (Roberto Nepoti, Rivista del Cinematografo on line, 13 ottobre 2000) "Sotto i nostri occhi il corpo di Bacon si dissolve, si scioglie e scompare. E' solo una delle meraviglie del film. Il regista discontinuo del sulfureo 'Basic Instinct' e del tremendo 'Showgirls' stavolta se la cava con professionalità decorosa e spettacolare. E con nudi per nulla invisibili". (Piera Detassis, 'Panorama', 24 agosto 2000)
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Titolo Ortone e il mondo dei Chi
Titolo originale Horton Hears A Who!
Anno 2008
Regista Jimmy Hayward
Durata 88
Paese USA
Genere animazione
Trama Il bizzarro elefante Ortone un giorno avverte un debole grido d'aiuto provenire da un minuscolo granello di polvere che fluttua nell'aria. In realtà, nel granello si cela la Città dei Chi non So, dove vivono i microscopici Chi governati dal Sinda-chi. Per proteggere la minuscola comunità, Ortone non esiterà a mettersi contro i suoi vicini. Dopo tutto, il suo motto è: "una persona è sempre una persona, non importa quanto sia piccola".Note - VOCI DELLA VERSIONE ORIGINALE: JIM CARREY (ORTONE), STEVE CARELL (IL SINDACO), DANE COOK, ISLA FISHER.- VOCI DELLA VERSIONE ITALIANA: CHRISTIAN DE SICA (ORTONE), VERONICA PIVETTI (KANGAROO), PAOLO CONTICINI (IL SINDACO).Critica "Esaltando fantasia e purezza di cuore come indispensabili tramiti per la verità,, la favola suggerisce che non sempre la direzione di tutti è quella giusta, che il piccolo conta quanto il grande e che qui Chi potremmo anche essere noi, minuscola porzione dell'immenso universo. Tuttavia, messaggi a parte, il bello di Ortone è la qualità dello spettacolo diretto da Jimmy Hayward & Steve Martino; ritmo, umorismo, indovinati personaggi di contorno, begli sfondi, colore, raffinatissima graphic in 3 D; e doppiaggio ottimo di Christian De Sica e Veronica Pivetti." (Alessandra Levantesi, 'La Stampa', 18 aprile 2008)"Non sappiamo fino a che punto un bambino piccolo sia in grado di comprendere la messa a confronto tra l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo; bisogna però riconoscere il coraggio di un cartoon che si propone di tradurre idee astratte in immagini; e va aggiunto che l'ideologia - imperniata sull'indipendenza di giudizio, la difesa dei più deboli, la forza delle convinzioni - è delle più condivisibili. Ottimo il lavoro del team creativo dell'Era glaciale'. Affidate nella v.o. a Jim Carrey e Steve Carrell, in italiano le voci di Ottone e del Sinda-Chi sono di Christian De Sica e Paolo Conticini."(Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 18 aprile 2008)"Il resto lo fanno gag a orologeria, dialoghi spesso esilaranti e un 'messaggio' leggero ma pungente. Il conformismo è in agguato ovunque. E a tutte le età." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 18 aprile 2008)
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Titolo Hostel: Part II
Titolo originale Hostel: Part II
Anno 2007
Regista Eli Roth
Durata 93
Paese USA
Genere horror
Trama Beth, Lorna e Whitney, tre giovani americane che frequentano una scuola d'arte a Roma, vengono invitate da una modella conosciuta a scuola a passare un fine settimana in Slovacchia. Giunte nell'ostello in cui devono soggiornare, si rendono conto però che la loro gita si prospetta tutt'altro che piacevole...Critica "Cambiare strada, aprire la porta sbagliata, entrare nel mattatoio. Il gioco è sempre quello e gli autori che rinnovano la formula sanno di andare incontro alla legge del contrappasso: faranno a pezzi i personaggi, ma saranno a loro volta massacrati dai recensori armati. (...) Nell'atto secondo, pieno di omaggi all'Italia, al sangue di ieri, le fanciulle in gabbia sono sventate ma innocenti: sarà più divertente vederle soffrire." (Claudio Carabba, 'Sette', 21 giugno 2007)"Non è bastato farsi fotografare con un enorme pene finto, né fidanzarsi con Rosario Dawson né avere una delle battute più divertenti di 'Grindhouse - A prova di morte' del vate Tarantino. 'Hostel part II' per Eli Roth è un fallimento totale. Se il primo era pieno di sangue, politica, humour nero ed avventura, il secondo è fiacco e senza originalità. (...) Donna eviratrice? Già vista in Tarantino grazie. Tifosi romanisti in treno con magliette di Totti, oscenità in italiano nei vagoni, cammei spiritosi della Fenech, Ruggero Deodato (cannibale annoiato) e Luc Merenda console slovacco da incubo. Da Roth ci aspettavamo di più." (Francesco Alò, 'Il Messaggero', 21 giugno 2007)"Invitiamo stavolta gli spettatori, gente normale, per bene, gente che lavora e che ha dei figli, li invitiamo ad assistere a questa macedonia di tutte le atrocità che è possibile immaginare, grazie alla complicità di una critica formata da giovani incoscienti, presuntuosi e cinici, che trasformano questa materia vomitevole in cinema di culto, perché anche se non ve ne accorgete loro vi umilieranno perché non avete colto l'ironia della materia. Capito?" (Adriano De Carlo, 'Il Giornale', 22 giugno 2007)"Se la traccia narrativa è quasi la fotocopia del prototipo, 'Hostel part II' travalica di gran lunga quello che era solo un horror adolescenziale particolarmente truculento e voyeuristico. Sotto l'etichetta 'Quentin Tarantino presenta', Eli Roth ha confezionato un oggetto cinematografico bizzarro e genialoide, che traversa generi differenti ma accomunabili in un omaggio collettivo: quello alla serie Z del cinema italiano anni 70. (...) Tarantiniano fino alle midolla, Roth fa sfoggio di un umorismo macabro, o meglio di un burlesco nero che non risparmia nulla e nessuno, includendo l'infanticidio e la partita di calcio più raccapricciante mai vista al cinema. Il film mette in scena un'economia dell'orrore fondata sulla totale svalutazione della vita umana." (Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 29 giugno 2007)
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Titolo Io sono leggenda
Titolo originale I Am Legend
Anno 2007
Regista Francis Lawrence
Durata 100
Paese USA
Genere azione, drammatico, fantasy, horror
Trama A seguito di un'epidemia causata da un virus letale inventato dall'uomo, lo scienziato Robert Neville scopre di essere rimasto l'unico superstite della città di New York se non, addirittura, di tutto il pianeta Terra. Tre anni dopo il disastro, Neville tenta ancora di capire per quale ragione lui sia rimasto immune al virus e cerca disperatamente un contatto con altri sopravvissuti, evitando, nel frattempo di finire nelle mani dell'orda degli 'Infetti'.Note - REMAKE DEL FILM "1975: OCCHI BIANCHI SUL PIANETA TERRA" (1971) DIRETTO DA BORIS SAGAL E CON CHARLTON HESTON NEL RUOLO DEL PROTAGONISTA ROBERT NEVILLE.Critica "'Io sono leggenda' consacra la carica furba visionaria di Francis Lawrence che è inferiore alla sua tenuta narrativa e alla sua potenza introspettiva. Smith, con pochi costosi flashback di fuga di famiglia dove scrittura la sua piccola Willow, è mattatore a ciclo completo: sfoggia i pettorali, finisce appeso all'insù e con un chiodo alla coscia, lascia messaggi radio, imita Bob Marley e soggiorna a Washington Square come 'L'ereditiera' di Henry James: in fondo, un tasso di angoscia sopportabile nel 2012, che un tempo era data fantascientifica ma oggi è a portata di mano. Sfuma il tasso di preveggenza e di allarmismo ed aumenta la voglia di esprimere un divertimento primordiale di violenza, ma tradendo poi l'autore in modo ottimisticamente infedele." (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 11 gennaio 2008)"'Io sono leggenda' è un libro fondamentale e struggente. Infatti, questo film era atteso da molto. Purtroppo, il regista Francis Lawrence e lo sceneggiatore Akiwa Goldsman, oltre ai maldestri riferimenti a 9/11 (la città viene definita due volte ground zero), hanno deciso di 'attualizzare' ulteriormente il materiale per questi nostri tempi buonisti e poco ricettivi alle cattive notizie, aggiungendo alla storia due elementi che Matheson non aveva proprio contemplato: Dio (nell'apparizione di Alicia Braga, un'altra sopravvissuta) e la speranza. Un tradimento imperdonabile." (Giulia D'Agnolo Vallan, 'Il Manifesto', 11 gennaio 2008)"Will Smith, fervido sostenitore di Barack Obama, qui diventa alfiere (involontario?) di Hickabee. In più ci piazza anche il lieto fine. Tradimento insopportabile al libro, rispetto al resto della pellicola: Matheson conclude il suo romanzo con cinismo feroce e cupo, segnando l'uguaglianza tra mostri e presunti normali. Ottanta minuti di buon cinema, però, sono funzionali per recuperare due gemme: usciti dalla sala morirete dalla voglia di comprare il libro e di leggerlo accompagnati dalla calzante e commovente colonna sonora della pellicola, per musica e parole. Quale? 'Legend', ovviamente, di Bob Marley ."(Boris Sollazzo, 'Liberazione', 11 gennaio 2008)"Diretto dal regista di 'Constantine' con Keanu Reeves, 'Io sono leggenda' è la terza versione del celebre romanzo di Richard Matheson già portato sullo schermo nel 1963 ('L'ultimo uomo della Terra' di Sidney Salkow e Ubaldo Ragona, con Vincent Price) e nel 1971 ('1975: occhi bianchi sul pianeta Terra' di Boris Sagal, con Charlton Heston). Il film italo-americano, di gran lunga il migliore, era un piccolo e imitatissimo gioiello concettuale a basso budget, tutto girato all'Eur. Il remake del 1971 giocava senza troppa convinzione la carta del catastrofismo in stile kolossal. 'Io sono leggenda' invece si adegua al roboante cinema d'azione d'oggi, troppo schiavo dei videogame e degli effetti più o meno speciali per dare un'anima oltre che un corpo ai suoi incubi. (...) Non mancano sorprese e incidenti, ma il film non sfrutta fino in fondo le sue carte. E se è bella l'idea di costringere Will Smith, mai così atletico, nei panni contraddittori del medico e del killer che ora cattura i vampiri e cerca un vaccino, ora li stermina rabbiosamente, il dibattito parareligioso in sottofinale (può esistere un Dio in una situazione simile?) è abbastanza appiccicato. Come del resto l'ovvia morale sui rischi della scienza. Fatale anche creare un esercito di zombie tutti uguali. Bob Marley, qui testimonial involontario del Padreterno, meritava di meglio." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 11 gennaio 2008)"Impossibile non restare ammirati davanti a Will Smith che sostiene solitario sulle proprie spalle un'ora intera di film. In mezzo alla devastazione di una New York dopo la catastrofe che, dal vero, è diventata l'impressionate scenografia del film di Francis Lawrence dal romanzo di Richard Matheson già più volte portato sullo schermo. Però la stessa ragione di ammirazione non impedisce al film di rischiare la monotonia." (Paolo D'Agostini, 'la Repubblica', 11 gennaio 2008)"Può restare il dubbio sul finale consolatorio del film, una sorta di palingenesi che attenua la pessimistica visione di Matheson: ma è pur vero che di questi tempi abbiamo tutti bisogno di un po' di speranza." (Alessandra Levantesi, 'La Stampa', 11 gennaio 2008)"Dei tre film tratti da 'I vampiri' di Richard Matheson (1954), 'Io sono leggenda' di Francis Lawrence è il maggior investimento e sarà il maggior incasso, ma non è la miglior riuscita estetica. Gli effetti speciali fanno saltare i cervi di Central Park - nella deserta New York dell'estate 2012 - come velociraptor nei Jurassic Park; i vampiri - mutanti affetti da una sorta di rabbia, aggressivi e fotofobici ma non impudichi (hanno sempre almeno le mutande) - sono scattanti come gli ultimi zombi. (...) Attore per caso, Smith regge bene nei film dove ha intorno chi gli porge la battuta. Ma in 'Io sono leggenda' quasi sempre recita solo e così mostra i suoi limiti; il confronto con i protagonisti degli archetipi - Vincent Price de 'L'ultimo uomo della Terra' di Sydney Salkow e Charlton Heston di '1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra' di Boris Sagal - gli nuoce. Ma anche lo spettatore ignaro degli antedecenti di 'Io sono leggenda' noterà che qui responsabile del contagio, contagiati e militari ottusi sono bianchi; non lo è chi il contagio combatte, come Will Smith e la brasiliana Alice Braga, esule approdata a New York da San Paolo per discutere di fede!" (Maurizio Cabona, 'Il Giornale', 11 gennaio 2008)
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Titolo Io non sono qui
Titolo originale I'm Not There
Anno 2007
Regista Todd Haynes
Durata 135
Paese USA
Genere biografico, musicale
Trama La vita, gli amori, la musica, le canzoni e gli anni della maturità artistica e personale del celebre cantante americano Bob Dylan, visti attraverso gli occhi di sette personaggi, ognuno dei quali interpreta il cantante in un particolare momento della sua vita. Dall'infanzia agli esordi come cantante folk, dal successo raggiunto nei primi anni '60 come artista politicamente impegnato, al controverso passaggio alla musica rock. Poi, l'incidente motociclistico e il conseguente ritiro dalle scene, fino al ritorno alle apparizioni in pubblico con una serie di concerti noti come il 'Never Ending Tour', iniziato nel 1988 e che lo ha portato ad esibirsi in oltre 2000 concerti.Note - PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA (EX-AEQUO CON "LE GRAIN ET LE MULET" DI ABDELLATIF KECHICHE) E COPPA VOLPI PER LA MIGLIOR INTERPRETE FEMMINILE A CATE BLANCHETT ALLA 64. MOSTRA INTERNAZIONALE D'ARTE CINEMATOGRAFICA DI VENEZIA (2007).- CATE BLANCHETT, VINCITRICE DEL GOLDEN GLOBE 2008 COME MIGLIOR ATTRICE NON PROTAGONISTA, E' CANDIDATA ANCHE ALL'OSCAR 2008 NELLA STESSA CATEGORIA.- CANDIDATO AL NASTRO D'ARGENTO 2008 COME MIGLIOR FILM EXTRAEUROPEO.Critica "Tante facce diverse. tanti modi complementari di raccontare la stessa personalità artistica senza cadere nell'agiografia (la condizione principale messa da Dylan per concedere le sue canzoni) ma anche senza finire per forza nella logica del 'buco della serratura', da cui spiare segreti inconfessabili. Piuttosto un omaggio pieno d'amore e di citazioni non sempre facilissime da decifrare (il ragno che si proietta sulle pareti richiama Tarantola, come il romanzo scritto da Dylan; almeno un paio di immagini 'copiano' sue copertine famose, 'Freewheelin', e 'Blonde on Blonde'), illuminato da un gruppo d'attori in stato di grazia, su cui svetta una straordinaria Cate Blanchett, la cui rassomiglianza fisica con Dylan è il minore dei meriti, visto il lavoro fatto sulla voce e sui gesti e le movenze. Se non la premiano, bisognerà scendere in piazza." (Paolo Mereghetti, 'Corriere della Sera', 5 settembre 2007)"'Io non sono qui' fa parte di quella categoria di film ammirevoli che hanno tutte le virtù per vincere un festival, per entusiasmare cinefili del tipo più visionario. e per far fuggire strepitando il pubblico definito normale, che pretende di sapere cosa stia mai succedendo sullo schermo, chi siano i personaggi che lo occupano, come cominci e come finisca la storia. Però il film risuona della musica e dei versi strepitosi di 'Like a Rolling Stone', di 'Mr. Tambourine Man' e di qualche altra decina di canzoni di Bob Dylan, interpretate da lui o da altri. E si può quindi immaginare che i suoi giovani ammiratori non baderanno al sublime cinecaos che solo specialisti insieme musicali e filmici riusciranno a decifrare, e ancora più incantati resteranno gli attuali sessantenni che ai tempi di 'The thimes they are a changin' non solo avevano tanti capelli ma erano sicuri che una canzone sarebbe bastata a cambiare il mondo." (Natalia Aspesi, 'la Repubblica', 0 settembre 2007)"Avviso a dylaniati e dylaniani: 'Io non sono qui' è il film per voi, una goduria che si prolunga per 135 minuti, suppergiù la durata delle 39 canzoni, tra originali e cover, inserite nel fantasioso 'biopic' in concorso alla Mostra. Avviso a coloro che hanno sempre mal sopportato 'Blowin' in the wind' e affini: 'Io non sono qui', se possibile, vi farà detestare ancora di più Bob Dylan, al secolo Robert Zimmerman. In originale 'I'm not there', dal titolo di una delle canzoni più belle e rnisconosciute di Dylan, il nuovo film di Todd Haynes ha diviso come poche volte i festivalieri. All'uscita dalla proiezione, fitti conciliaboli per decifrare, ricostruire, collegare, anche esecrare. Perché il regista di 'Lontano dal Paradiso' s'è divertito non poco a complicare le cose, nella prospettiva di rendere 'un'esperienza emotiva e sensoriale' la sua cavalcata nella vita, gli umori e le canzoni del menestrello di Duluth. Non per niente ha voluto che fossero in sei a incarnarlo nelle diverse fasi dell'esistenza, ciascun personaggio con un nome diverso, a comporre una biografia anomala e corale che rispecchia le anime controverse dell'uomo." (Michele Anselmi, 'Il Giornale', 5 settembre 2007)"La coraggiosa distribuzione presuppone che in Italia ci siano centinaia di migliaia di adepti al culto di Bob Dylan. Temiamo sia la condizione necessaria per apprezzare il film: che a noi, in quanto dylaniani/dilaniati,è piaciuto enormemente, ma che è di ardua comprensione senza una conoscenza approfondita delle opere e della vita del grande cantante. Anzi, delle sue 'molte vite', alle quali si ispira il film, come recita la didascalia iniziale (...) Ne esce un collage visionario, pieno di musiche stupende, in cui i dylaniani vanno a nozze e gli altri, ahiloro, si arrangiano. Nota a margine: l'unica dei 6 interpreti che assomiglia all'originale è la donna, Cate Blanchett, che fa un'operazione di mimesi clamorosa. Se non vince un altro Oscar, scenderemo in piazza." (Alberto Crespi, 'L'Unità', 5 settembre 2007)"Lo sforzo produttivo e creativo è immane e da plauso, ma ci chiediamo veramente se non si poteva fare qualcosa per cercare di avvicinare anche il pubblico dei non-esegeti ad un progetto come questo. Se la svolta elettrica di Newport - con Dylan Blanchett che imbraccia un mitragliatore e spara contro il suo pubblico venuto per ascoltare un concerto folk - la diamo per scontata nella conoscenza generale dello spettatore medio (ma sarà così?), è un peccato veder sprecati così tanti rivoli ispirati, ma rivolti veramente solo ad un pubblico scelto. La casa distributrice italiana lo vorrebbe passare nei multiplex, ma questo 'I'm Not There' in verità non è neanche veramente un film d'essai, è proprio un prodotto di nicchia, per dylanologi, dylanisti, e pochissimi altri." (Massimo Benvegnù, 'Il Riformista', 5 settembre 2007)"Buoni esiti, ancora una volta, per il cinema americano, con un'operazione intelligente avviata da Todd Haynes dopo i1 successo di 'Lontano dal Paradiso' con 'Io non sono qui'. Un modo nuovo, originalissimo, di affrontare un genere spesso visitato da Hollywood, la biografia. Sei personaggi per dirci di uno solo, Bob Dylan, un'icona vivente del rock nel Novecento. Si ascoltano le sue canzoni con la sua voce o con quelle di altri ma lui non si è mai mostrato. Al suo posto, non sempre in ordine rigidamente cronologico, delle figure che, con nomi spessa immaginari, ci raccontano, dagli esordi ad oggi, i momenti salienti della sua vita. Nel '59, un ragazzino di colore che fugge clandestino su un treno, poi un tale giovanissimo Arthur che, di fronte a noi, agisce come Arthur Rimbaud," (Gian Luigi Rondi, 'Il Tempo', 5 settembre 2007)"Il film è criptico e confuso: ma, per via della musica, del significato e dell'influenza che Bob Dylan ha avuto per varie generazioni, è anche molto complice e commovente." (Lietta Tornabuoni, 'La Stampa', 5 settembre 2007)"Ogni passaggio avanti e indietro nel tempo adotta uno stile intonato alle febbrili fasi biografiche: variopinto e scolpito quando il divo egoista si compiace del denaro e del successo, trascurando l'appassionata moglie ex pittrice; psichedelico e burlesco ai momento dell'immersione nella 'Swinging London' beatlesiana; addirittura felliniano o burtoniano nell'iniziatico intermezzo affidato a Richard Gere nei panni del bandito Billy the Kid (il riferimento dovrebbe essere al capo d'opera di Sam Pechkinpah interpretato e musicato nel '73). Nonostante l'inevitabile coinvolgimento, non si riesce a immaginare folle di spettatori che s'accalcano al botteghino: l'andamento irregolare, gli incroci inestricabili, le sovrapposizioni all'interno della stessa sequenza, gli inserti surreali, il simbolismo degli attacchi e gli stacchi più o meno cronologici della dilagante colonna sonora (che si chiude con il magico pathos di 'Like a Rolling Stone') tentano, insomma, a proprio rischio e pericolo di restituire la complessità e i salti logici che rendono immortale l'epigrafe 'parole e musica di Bob Dylan'." (Valerio Caprara, 'Il Mattino',05 settembre 2007)"Un biopic psichedelico, storia di una vita raccontata attraverso l'esplosione del mito in migliaia discintillanti frammenti. Haynes li rimette insieme con ordine discutibile e con tempi orribilmente prolissi, ma non senza sprazzi di piacere e genialità. La frammentazione ulteriormente sottolineata dalla presenza in scena di sei diversi attori per ogni pezzo di personalità interpretata: Richard Gere, Cate Blanchett, Heath Ledger, Christian Bale si passano la pala dell'icona americana più resistente allo scorrere del tempo. L'uomo che, nei quaranta anni della sua carriera, ha incarnato tutte le anime dell'America, risputandole in musica e poesia. Caotico e lungo, colonna sonora scelta tra i brani meno conosciuti. Ma alla fine qualche pezzetto di Dylan ci rimane appiccicato addosso." (Roberta Ronconi, 'Liberazione', 5 settembre 2007)"135 minuti dunque 'autorizzati' su Robert Zimmerman Bob Dylan, ma senza la partecipazione di Bob Dylan, se non nei pochi secondi finali, in un assolo con l'armonica a bocca da virtuoso seicentesco. Come dire di no, infatti al regista di 'Safe' e 'Velvet Goldmine', a Todd Haynes che nacque al cinema con una biografa su una folk singer morta anoressica, anche se 'The Karen Carpenter Story' nessuno l'ha mai visto perché, interpretato da una bambola Barbie fu proibito dall'industria che le fabbrica (neanche tanto correttamente)." (Roberto Silvestri, 'Il Manifesto', 5 settembre 2007)Dalle note di regia: "Il permesso di portare sugli schermi il primo film drammatico sulla vita di Bob Dylan era un onore che mi atterriva. La decisione di avvicinare il personaggio sfruttando molteplici prospettive, in modo da accentuarne i contrasti, le contraddizioni e la complessità, mi ha fatto sentire in grado di poterlo rappresentare fedelmente. Mi sembrava inoltre l'unico modo per accedere all'originale pazzia della sua musica. Tutti e sette i personaggi principali si ispirano a una differente fase della vita e dell'odissea musicale di Bob Dylan. Tuttavia ciascun personaggio ha la propria vita e lotta per una sorta di libertà, la chiave di volta della quale va ricercata nella storia di un altro personaggio. Ricevendo l'imbeccata dalle canzoni di Dylan, le storie - che confluiscono una nell'altra - creano un dialogo fra passato e presente, fra genio e razionalità, fra l'America contemporanea e il suo leggendario passato. Come Dylan stesso dichiarò in merito al proprio lavoro: 'Ti trovi con ieri oggi e domani nello stesso spazio e non puoi sapere cosa succederà."
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Titolo Io, robot
Titolo originale I, Robot
Anno 2004
Regista Alex Proyas
Durata 115
Paese USA
Genere fantascienza, thriller
Trama Il detective Del Spooner è chiamato a investigare sulla morte del dottor Miles Hogenmiller, un brillante scienziato della U.S. Robotics che stava lavorando a un nuovo tipo di robot, chiamato 'Sonny', dotato di un cervello simile a quello umano. Con l'aiuto della dottoressa Susan Calvin, psicologa esperta di intelligenze artificiali, deve cercare di svelare il mistero che si cela dietro quello che apparentemente sembra essere un omicidio commesso per mano di un robot...Note - CANDIDATO ALL'OSCAR 2005 PER I MIGLIORI EFFETTI VISIVI (JOHN NELSON, ANDY JONES, ERIK NASH, JOE LETTERI).Critica "L'australiano Proyas ('Dark City', 'Il corvo') sa prendere lo spettatore alla gola giocando su due fondamenti del terrore: l'Indistinto (nugoli di robot assassini, come lo sciame di piovre di 'Matrix 3' o i mostri infiniti di 'Aliens'); e il Diverso, anzi il quasi-umano e in quanto tale ancora più inquietante. Onore al robot disegnato da Patrick Tatopoulos, che non solo sogna e conta balle, ma soffre di accessi di collera violenta, come il più imperfetto degli umani. Ed esprime sentimenti come inganno, malizia, minaccia, intesa, tristezza... Altro che nascita della coscienza (e rivolta degli schiavi, come già in 'Metropolis' o 'Fight Club'). Il vero tema del film è la nostra capacità di simulare e riprodurre le emozioni più intime. A che scopo? Forse 'Io, robot' non parla del futuro, ma del presente." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 22 ottobre 2004)"Il regista australiano Alex Proyas ('Dark City', 'Il corvo') si confronta in 'Io, robot' con un must della fantascienza, riveduto e corretto da classici moderni come 'Star Wars', 'Terminator' o 'A.I. Intelligenza Artificiale' e, costeggiando la routine d'azione rinforzata dagli effetti speciali, propone uno spettacolo abbastanza riuscito e divertente. Certo la densità concettuale di Isaac Asimov, racchiusa nell'omonima raccolta di racconti (1941-1950), viene scavalcata da un copione che ne sfrutta solo le atmosfere e si sviluppa in modo autonomo; eppure l'aggiornato intrigo poliziesco conta sul notevole ritmo di sparatorie e inseguimenti e su di un'ingegnosa combinazione degli elementi visivi e scenografici basilari del genere. (...) L'aspetto più trito del film riguarda il ribellismo alla 'Metropolis' dei robot e l'annesso volantino anti-industriale; anche se, a pensarci bene, il più ferrigno e leninista del lotto è proprio il palestrato protagonista, a sua volta in parte robot, che non si fida delle lattine, reagisce, s'accanisce e schiaccia le loro aspirazioni libertarie. (Valerio Caprara, 'Il Mattino', 23 ottobre 2004) "Se la pagina di Asimov è densa di umori di sessant'anni fa, il film di Proyas lo è di quelli degli ultimi venti. Ma una trovata di sceneggiatura salva il film dalla banalità: mettere accanto alla robopsicologa un poliziotto manesco e mammone, cacciatore di robot, visibilmente discendente di vecchi schiavi e visibilmente ostile ai nuovi. Infatti il neoarrivato la libertà non vuol sempre condividerla ulteriormente. E poi c'è sempre qualcuno prima e dopo nella scala gerarchica. Chi è dopo non è necessariamente migliore di chi è prima. E viceversa. Tenerlo presente rende 'Io, robot' qualcosa di più del rifacimento di 'Blade runner', ma non lo rende un bel film." (Maurizio Cabona, 'Il Giornale', 22 ottobre 2004)"Associata a quella di Asimov, la fantasia visionaria di Alex proyas ('Il corvo', 'Dark City') avrebbe potuto fare grandi cose. Invece il regista si è limitato a confezionare un film d'azione ad alta tecnologia mettendo il pilota automatico: buon senso della logistica dell'inquadratura, inseguimenti mozzafiato, un migliaio di effetti visivi; ma, sostanza, poca. Senza aspettarsi riflessioni risolutive circa 'evoluzione delle macchine e i loro rapporti con l'umano, qualcosa di più del solito blockbuster sembrava legittimo aspettarselo. Né 'Io, robot' si sforza di aprire parentesi sul fronte sentimentale, dato che i rapporti tra il poliziotto e la sua assistente Susan sono meccanici come il resto. In un mondo di robot umanizzati e di star umane utilizzate come robot, il migliore in campo è l'attore sconosciuto Alan Tudyk, la cui mimica fa muovere il robot NS-5, creatura integralmente digitale." (Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 22 ottobre 2004)"Sul tema del mondo dei robot, incubo obbligatorio del nostro futuro, si sono provati tutti, da Sordi (la sua 'Caterina', per uso domestico) a 'Terminator', dalla Kidman meccanica al prossimo 'Sky Captain'. Ma è su 'Io, robot' che s'accende la querelle: ispirato più al cine soggetto di 'Hardwired' che a 'Iniziativa personale', un racconto di Asimov ripubblicato da Mondadori, il film di Alex Proyas, il dark autore del 'Corvo', si vanta dei mille effetti visivi speciali (cui va aggiunta la pubblicità pochissimo occulta). Nonostante le tre leggi kantiane robotiche del libro, esso rischia di confondersi tra i troppi film al computer dove vince l'etica del trucco, le suadenti visioni di una società clonata a misura di robot, che saranno anche direttori d'orchestra. (...) Agendo solo con le macchine, anche il film è meccanico, senza sangue né polso e si concede le solite stravaganze spettacolari come il lungo inseguimento d' auto. 'Io, robot' è un involucro vuoto dal rumore metallico, seducente come traiettoria futurista di linee, grafica e rumori. Sembra una macchina celibe che non induce in tentazione né filosofica né sentimentale: qualche stupore però nessuna commozione." (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 23 ottobre 2004)
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Titolo L'era glaciale
Titolo originale Ice Age
Anno 2002
Regista Chris Wedge e Carlos Saldanha
Durata 81
Paese USA
Genere animazione, avventura, commedia, family
Trama Pianeta Terra, ventimila anni fa. Mentre una glaciazione terribile sta decimando gli abitanti della terra, il bradipo Sid e il mammut Manfred - Manny per gli amici - si imbattono in un cucciolo d'uomo abbandonato, Roshan. Cercheranno di riportarlo al padre nonostante l'ambiguità dell'unico carnivoro del gruppo: Diego, tigre siberiana dalle zanne lunghe.Note - VOCI DELLA VERSIONE ITALIANA: LEO GULLOTTA (MANFRED), CLAUDIO BISIO (SID), PINO INSEGNO (DIEGO).- IDEAZIONE PERSONAGGI: PETER DE SEVE; IDEAZIONE PAESAGGI: PETER CLARKE.- CANDIDATO AGLI OSCAR 2003 COME MIGLIORE FILM DI ANIMAZIONE.Critica "E' divertente 'L'era glaciale' di Chris Wedge, risposta della Fox alle mirabilia digitali della Dreamworks. Il tratto e la tecnica sono meno sofisticati, ma il film resuscita la comicità fisica e primaria dei vecchi cartoons con qualche strizzata d'occhio agli adulti. E si vede con piacere a ogni età". (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 26 aprile 2002) "Gagliardo, tenace, tradizionale e commovente il trio, ma è educativa e sorprendente la figura della tigre che, come un palestinese o un israeliano conciliati, si trova a scoprire l'etica della condivisione nello spietato tempo dei primati." (Silvio Danese, 'Il Giorno', 26 aprile 2002) "A parte l'ultimo, abbastanza vicino all'estetica Disney, la scelta dei personaggi non manca di originalità, con una menzione speciale per il brutto, patetico e simpaticissimo Sid. Risultato di strumenti d'ultimissima generazione, le immagini sono eccezionali per l'illusione di tridimensionalità che trasmettono: anche grazie agli effetti d'illuminazione, dovuti a un particolare software, che conferiscono ulteriore volume ai corpi immateriali. Quel che conta di più, però, è come 'L'era glaciale' riesca a coniugare tecnica e divertimento con una morale che riscalda il cuore. Geniale il doppiaggio di Leo Gullotta, Claudio Bisio, Pino Insegno".(Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 28 aprile 2002)"Dopo le corazzate animate di 'Shrek' e 'Monsters & Co.', approda con successo nelle sale anche 'L'era glaciale', un film meno strombazzato dei suoi confratelli e ai quali ruba più di un'idea, ma che dimostra una brillantezza certamente non inferiore a quella dei suoi illustri colleghi. (...) Divertente, malinconico, suggestivo, questo viaggio nella preistoria si rivela una piacevole sorpresa. Sempre pronta a stupire e divertire è anche l'edizione italiana, con le voci di Leo Gullotta, Pino Insegno e del 'bleso' Claudio Bisio". (Fabrizio Liberti, 'Film Tv', 9 maggio 2002) "Massimo uso del digitale, buoni sentimenti e dialoghi ridanciani, niente di speciale tra i ghiacci della 'era glaciale', termine improprio usato a volte per indicare il fenomeno delle glaciazioni verificatosi nell'era quaternaria". (Lietta Tornabuoni, 'La Stampa', 3 maggio 2002)
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Titolo Il buono, il brutto, il cattivo
Titolo originale Il buono, il brutto, il cattivo
Anno 1966
Regista Sergio Leone
Durata 161
Paese ITALIA, SPAGNA
Genere azione, drammatico, western
Trama Mentre divampa la guerra di secessione, tre uomini privi di scrupoli e di ideali vivono ai margini della legalità: Tuco, il Brutto, Joe, il Buono e Sentenza, il Cattivo. Sentenza è da tempo sulle tracce di una grande quantità d'oro nascosta dal temibile Bill Carson al sicuro dentro una tomba. Per uno scherzo del destino, però, è il Buono a scoprire il nome scritto sulla tomba e il Brutto a individuarne l'ubicazione. Così i tre uomini, che si odiano e non si fidano l'uno nell'altro, sono costretti ad iniziare insieme le ricerche, legati dal destino e dalla stringente necessità di sorvegliarsi l'un l'altro giorno e notte. Nel cimitero, i tre si affrontano nel duello decisivo: dopo aver eliminato il Cattivo, Il Buono deride il Brutto per poi lasciarlo in vita, malconcio, spaventato a morte e con una tale quantità di monete d'oro che non riuscirà mai a spendere e forse neppure a trasportare.Note - REVISIONE MINISTERO DELL'8 APRILE 1969.Critica "In questo western basato su schemi risaputi e situazioni convenzionali, tutto è sotto l'insegna dello 'strafare'. Tale impostazione menoma le indubbie capacità tecniche del regista, la sua fervida fantasia, la sua capacità nell'evocazione di atmosfere, nonché la sua precisione nei disegni psicologici." ('Segnalazioni cinematografiche', vol. 61, 1967)
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Titolo Il cosmo sul comò
Titolo originale Il cosmo sul comò
Anno 2008
Regista Marcello Cesena
Durata 100
Paese ITALIA
Genere commedia
Trama Il maestro orientale Tsu'Nam vive sulla montagna con i suoi due discepoli, Pin e Puk, e all'ombra di un secolare ginko biloba, impartisce loro lezioni di vita con l'aiuto di una canna di bambù. Le pillole di saggezza del maestro intervallano i seguenti episodi:"Milano Beach" - Tre amici, tra equivoci e incomprensioni, organizzano la partenza per le vacanze estive con i loro familiari. "Falsi prigionieri" - I personaggi ritratti nelle opere di celebri artisti esposti in una pinacoteca trasmigrano da un quadro all'altro."L'autobus del peccato" - La vita degli abitanti di un quartiere di Milano ruota intorno a una cadente chiesa di periferia e al suo parroco."Temperatura basale" - Tre amici condividono in modo stravagante il testardo desiderio dipaternità di uno di loro.Note - SUONO: MARIO IAQUONE.- GIRATO A MILANO E DINTORNI.Critica "Aldo Baglio, Giovanni Storti e Giacomo Poretti tornano sul grande schermo per la sesta volta, ma è la prima con la regia di Marcello Cesena, confermando il loro esuberante talento, l'affiatamento, la grazia del loro umorismo, la contagiosa simpatia, ma anche l'esilità del loro cinema. (...) Modelli italiani a parte, la parodia serpeggia qua e là. La loro resta, comunque, la variante garbata al cinepanettone." (Paolo D'Agostini, 'la Repubblica', 19 dicembre 2008) "'Il cosmo sul comò', punta al recupero di una comicità più classica, costruita non solo su un canovaccio più o meno predeterminato con personaggi facilmente riconoscibili, capaci di far scattare automaticamente (o quasi) la risata, ma anche su una struttura narrativa più articolata e complessa che cerchi il sorriso o la risata per merito di invenzioni e ritmo e montaggio. Cioè con elementi eminentemente cinematografici. Certo, non tutto funziona allo stesso modo nel film e i quattro anni che sono passati da 'Tu la conosci Claudia?' (considerando 'Anplagghed al cinema' una specie di parentesi, visto che si trattava della messa in immagini del loro omonimo spettacolo teatrale), quei quattro anni - dicevo - sembra di poterli scandire proprio attraverso gli episodi del film, che in maniera più o meno involontaria segnano una specie di percorso di 'allontanamento' dalle loro gag televisive e teatrali per 'avvicinarsi' a un'idea di cinema più ambiziosa e compiuta." (Paolo Mereghetti, 'Corriere della Sera', 19 dicembre 2008)"In quattro anni dal loro ultimo lavoro vero e proprio per il cinema 'Tu la conosci Claudia?', il Trio non ha escogitato novità di rilievo. Nel 'Cosmo sul comò' si punta poco alla parodia di altri film, che era il loro forte: si continuano ad avere buone osservazioni sulle miserie della società, ma non se ne traggono le conseguenze fino in fondo. Abituato al tono mite della tv, che non consente una vera, sistematica cattiveria, il trio si ferma regolarmente ai limiti di quella che potrebbe essere la loro versione della commedia all'italiana. Peccato: si resta così nel dejà vu rispetto ai loro film. Ma, nel paragone coi titoli italiani correnti, 'Il cosmo sul comò' è un'oasi nella volgarità." (Maurizio Cabona, 'Il Giornale', 19 dicembre 2008)"I tre sono più bravi in teatro che al cinema, ma i loro film risultano profondamente differenti dai soliti film comici italiani, più curati, più pensati, meno ignoranti e grevi, nonostante qualche pernacchia e un po' di turpiloquio (poco). Ne 'Il cosmo sul comò' (titolo poco felice, per nulla euforico) i meno riusciti sono gli episodi della parrocchia e della pinacoteca." (Lietta Tonrabuoni, 'La Stampa', 19 dicembre 2008)
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Titolo Illusionist, The
Titolo originale Illusionist, The
Anno 2005
Regista Neil Burger
Durata 110
Paese USA
Genere avventura, drammatico, fantasy, romantico
Trama Il mago illusionista Eisenheim è diventato celebre per le sue spettacolari performances nei teatri di Vienna. Il Principe ereditario Leopold, incuriosito dal successo e dal mistero che circondano il mago, ma convinto che si tratti di un truffatore, mette alle sue calcagna il Capo Ispettore Uhl, un uomo ligio al dovere ma appassionato di magia e illusionismo. Una sera, mentre assiste ad uno degli spettacoli di Eisenheim, alla richiesta di un volontario da parte del mago, Leopold manda sul palco la sua fidanzata, Sophie von Teschen. Eisenheim riconosce l'"assistente" al primo sguardo. I due, infatti, sono stati compagni di giochi durante l'infanzia e tra loro era nato un sentimento più forte dell'amicizia sopito nel tempo e risvegliatosi prepotentemente al loro incontro. Il principe, geloso dell'amata e sempre più convinto a smascherare Eisenheim come truffatore, intensifica le indagini sul mago che, a sua volta, sta per mettere in atto la sua più grande illusione.Note - CANDIDATO ALL'OSCAR 2007 PER LA MIGLIOR FOTOGRAFIA.Critica "Un'inchiesta pericolosa, in cui l'uomo fatica a comprendere ciò che accade. In un certo senso, lo spettatore ne condivide la sorte. D'accordo che un intrigo del genere debba essere disseminato di trabocchetti; però gli eventi del film non sono sempre chiari, né verosimili. Difficile, d'altra parte, condividere l'ammirazione e lo stupore del pubblico viennese, sapendo che i prodigi cui assistiamo sono effetti speciali cinematografici. Il tutto malgrado l'impegno di Edward Norton, più ipnotico e inquietante del thriller che gli è toccato interpretare." (Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 6 aprile 2007)"Il tema e l'ambientazione sono simili a quelli del recente 'The prestige' (ma siamo a Vienna invece che a Londra), con tanto di tocco soprannaturale, e negli Usa i bloggeristi si sono scatenati in un confronto fra i due dal quale non può emergere un solo vincitore, perché sono entrambi ottimi: ma poter dire questo di due film 'gemelli' è già una vittoria." (Paola Casella, 'Europa', 6 aprile 2007)"Sullo sfondo di una Vienna ritrovata per le vere vie di Praga e suggestivamente fotografata da Dock Pope in una speciale chiave definita 'autocromatica', la vicenda evidenza soprattutto il duello intellettuale fra il mago e il poliziotto, per il quale un critico americano ha evocato il modello remoto di un 'Arsenio Lupin' (1932) con i fratelli Barrymore, in cui John era il ladro gentiluomo e Lionel il segugio. E' probabile, però, che Burger si sia ispirato alla schermaglia fra Raskolkikov e l'ispettore Porfirij in 'Delitto e Castigo' di Dostoevskij: ed è certo che Edwartd Norton e Paul Giamatti sono interpreti all'altezza di simili preziosi riferimenti. Di Norton si dice addirittura che è diventato amico del suo istruttore, il mago Rick Jay, e che è uscito dal film essendo ormai un perfetto manipolatore di illusioni. Neppure Stanislavskij, creatore del famoso Metodo che intreccia l'arte recitativa all'esperienza della vita reale, avrebbe sperato tanto."(Tullio Kezich 'Corriere della Sera', 6 aprile 2007)"Ieri 'The Prestige', oggi 'The Illusionist'. Sommerso da effetti sempre più sofisticati e invadenti, il cinema ha perso la cara vecchia magia: così si moltiplicano gli sforzi di ritrovare l'ingenuità e il fascino di quei trucchi fatti a mano. Eppure proprio qui casca l'asino. Tratto da un racconto di Steven Millhauser (ed. Fanucci), 'The Illusionist' la butta in politica (e in metafora). Ma non convince proprio perché, detta in soldoni, il regista strafà anzi bara, riempiendo lo schermo di trucchi tanto perfetti e mirabolanti quanto irrealizzabili e stonati nella Vienna fine '800. Peccato perché la storia era interessante, gli attori eccellenti (in testa Giamatti nel ruolo ingrato dell'ispettore capo). E l'idea del mago che a forza di prodigi diventa una specie di leader politico, popolarissimo dunque potenzialmente sovversivo, si prestava a un trattamento più sottile. Mentre qui il duello fra il misterioso mago Eisenheim (il sempre magnetico Edward Norton) e il principe ereditario Leopold (Rufus Sewell), divisi anche dall'amore per la stessa donna, è scandito da numeri così sbalorditivi (sparizioni, ectoplasmi, fazzoletti portati in volo da farfalle, piante capaci di crescere a vista) che l'inevitabile rivelazione finale lascia nello spettatore la sensazione di esser stato anche se piacevolmente un po' preso in giro." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 6 aprile 2007) "Su questa china avrebbe potuto svilupparsi, e con qualche ragione di novità, una storia che si sa poco originale. Invece, ineffabile sortisce l'eterno motivo dell'amore impossibile, versione rimaneggiata di Romeo e Giulietta viennesi, ostacolati da un destino nefasto. Ora, al di là dei temi ricorrenti (il cui abbecedario potrebbe essere certo rappresentato proprio dall'opera magna dello Shakespeare, che tutto ha immaginato e sintetizzato), 'L'illusionista' esce a poca distanza da un film quasi uguale, anche nel titolo, diretto da Christopher Nolan: 'The Prestige'. Un inutile bis, con qualche inutile variazione sul tema. Industria di poche idee e niente coraggio." (Dario Zonta, 'L'Unità', 6 aprile 2007)"'The Ilusionist' riduce a spurio dramma in costume, dove gli spunti filosofici sull'essenza del tempo, sulla finitezza dell'essere umano, come dell'origine diabolica o meno del gesto illusionistico finiscono tra una sterile sfida stile 'Blues Brothers' tra ispettore e mago e frasi da cioccolatini come: 'L'unico mistero irrisolto è perché il mio cuore non riesce a dimenticarti'. Davvero sottotono Edward Norton e Paul Giamatti. Jessica Biel la preferivamo inzaccherata di sangue nel remake di 'Non aprite quella porta' con la motosega di Leatherface alle calcagna." (Davide Turrini, 'Liberazione', 6 aprile 2007) "Neil Burger non è Christopher Nolan, dunque 'The Ilusionist' non è bello e gelido come 'Prestige'. 'The Illusionist' però non racconta una rivalità fra colleghi, solo l'eterno scontro tra saltimbanchi e politici. Mescolando fantasia e realtà, come il romanzo da cui è tratto, Burger inscena una vicenda del genere detto ucronia, cioè una rappresentazione storica parallela rispetto alla realtà.(...) Se uscite prima degli ultimi cinque minuti, potrete credere che sia un bel film." (Maurizio Cabona, 'Il Giornale', 6 aprile 2007)"In mezzo, la storia d'amore fra Eisenheim e Sophie e quelle sue tante esibizioni in palcoscenico di cui non svela mai i trucchi pur dichiarando al suo pubblico che sono solo il risultato di illusioni. Questa parte, narrativamente, sfiora il melodramma, solo un po' riscattato dall'intrigo per metà poliziesco che finisce soprattutto per restringersi attorno all'espediente con cui l'illusionista riuscirà a smentire il sospetto iniziale del suo coinvolgimento nell'uccisione di Sophie. Si segue tutto, però, anche convinti dall'indubbia abilità con cui la regia di Burger ha poi rappresentato la vicenda. Intanto, appunto, ponendovi sempre al centro quell'ispettore che, guardando, ci fa quasi materialmente vedere, quindi evocandogli attorno una cornice verosimilmente ottocentesca (con una Vienna rifatta a Praga), i cui valori figurativi si propongono sempre in primo piano. Non solo per delle immagini strette il più delle volte sui personaggi, ma per i colori quasi monocromi che ce le propongono, ora con il gusto della dagherrotipia, ora rifacendosi a quell'antica tecnica dell'autocromatura tenuta sempre qui in equilibrio sapiente fra l'ocra, il grigio plumbeo o, addirittura, il nero. Facendone scaturire l'incubo e l'angoscia. L'illusionista è Edward Norton, visto appena ieri nel 'Velo dipinto', Sophie, un po' smorta, è Jessica Biel, l'ispettore è Paul Giamatti, con le giuste ambiguità." (Gian Luigi Rondi, 'Il Tempo', 6 aprile 2007)
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Titolo In Bruges - La coscienza dell'assassino
Titolo originale In Bruges
Anno 2008
Regista Martin McDonagh
Durata 101
Paese GRAN BRETAGNA, BELGIO
Genere commedia, drammatico
Trama Poiché la loro ultima missione non è andata a buon fine, Ray e Ken, due killer a pagamento, vengono allontanati da Londra dal loro capo, Harry, in modo da far calmare le acque. I due trovano riparo a Bruges, in Belgio, dove si recano per un paio di settimane a fare i turisti. Durante il loro soggiorno nella cittadina, Ray e Ken incontrano una serie di bizzarri personaggi e per il problematico Ray, il destino ha in serbo anche un incontro d'amore. Tuttavia, quando Harry si rifarà vivo, la vacanza spensierata dei due killer prenderà una svolta decisamente rocambolesca.Note - GOLDEN GLOBE 2009 A COLIN FARRELL COME MIGLIOR ATTORE PROTAGONISTA. ANCHE BRENDAN GLEESON ERA CANDIDATO COME MIGLIOR ATTORE PROTAGONISTA, IL FILM, INVECE, COME MIGLIOR MUSICAL/COMMEDIA.- CANDIDATO ALL'OSCAR 2009 PER LA MIGLIOR SCENEGGIATURA ORIGINALE.Critica "Il trio dispiega tutte le sue energie migliori. Colin Ferrell disegna con i giusti turbamenti i rimorsi e il perpetuo sconcerto di Ray. Molto più pacato, al suo fianco, Brenda Gleeson, anche fisicamente, con la sua corporatura massiccia, tende a indicarci la comprensione e l'equilibrio. Ralph Fiennes, il boss, è gelido come un serpente." (Gian Luigi Rondi, 'Il Tempo', 15 maggio 2008)"Il regista Martin McDonagh, nato a Londra da genitori irlandesi, drammaturgo e regista teatrale, debutta nel cinema con questo film e mostra straordinaria padronanza, particolare sapienza nella sceneggiatura e nei dialoghi perfetti. Aveva detto di voler fare 'una storia divertente, sexy e pericolosa, ma insieme triste, strana, riflessiva e gioiosa'; c'è riuscito (salvo la connotazione sexy, che proprio manca) realizzando un film brillante e malinconico, recitato benissimo specialmente da Colin Farrell." (Lietta Tornabuoni, 'La Stampa', 16 maggio 2008)"Gangster spietati ma anche di buon cuore quelli di 'In Bruges, la coscienza dell'assassino'. Affidato, come capita agli inglesi, alla sottile qualità degli attori più che alla coerenza della sceneggiatura, al polso della regia. (...) Il film gira intorno ad un motivo coinvolgendo altri personaggini incisi con pochi efficaci tratti. E ci gira intorno senza la pretesa di arrivare a niente ma con l'ambizione di mettere in campo uno sguardo, un tono: tragicomico, umoristico e cupo al tempo stesso, imparentato con lo stile di Woody Allen." (Paolo D'Agostini, 'La Repubblica', 16 maggio 2008)"Il resto di 'In Bruges-La coscienza dell'assassino', opera prima del drammaturgo irlandese Martin McDonagh, è pura arte del dialogo con un occhio a Beckett e l'altro a Tarantino. Brutalità e senso dell'umorismo, arte medievale e commedia romantica, nani da picchiare e pistole che troncano la conversazione. Episodio dopo episodio, il film si svela ipnoticamente davanti ai nostri occhi. Motivi della magia? La penna arguta e umana di McDonagh (viene voglia di leggersi tutte le sue pièce irlandesi) e la potenza espressiva di Farrell e Gleeson. Il giovane Farrell si conferma grande attore. Se solo mettesse la testa a posto. Gli suggeriamo più Bruges e meno Hollywood." (Francesco Alò, 'Il Messaggero', 16 maggio 2008)
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Titolo L'incredibile Hulk
Titolo originale Incredible Hulk, The
Anno 2008
Regista Louis Leterrier
Durata 114
Paese USA
Genere azione, fantascienza, fantasy
Trama Dopo essere stato esposto ai raggi Gamma, lo scienziato Bruce Banner ha subìto una mutazione genetica che, quando è sottoposto a stress emozionali, lo fa trasformare in un gigantesco essere verde dalla forza esagerata: l'Incredibile Hulk. Dal momento dell'incidente, Bruce non ha più avuto pace perché si è trovato costretto a vivere in clandestinità per evitare la cattura da parte dei militari ed è alla continua ricerca di un antidoto che possa riportarlo ad una condizione di normalità. Quando la salvezza sembra ormai ad un passo, Bruce/Hulk si trova costretto a fare i conti con alcuni oscuri personaggi che vorrebbero avvalersi dei suoi poteri per scopi malvagi e soprattutto con un altro essere potente e misterioso. Come se non bastasse, deve anche riuscire a sventare un tentativo di distruzione della città di New York.Note - STAN LEE FIGURA ANCHE TRA I PRODUTTORI ESECUTIVI.Critica "Un regista adrenalinico come il francese Louis Leterrier, un budget sui 125 milioni di dollari, uno stile che sottolinea l'origine fumettistica dell'avventura, effetti speciali sofisticati e un cast sorprendente. (...) Prima di arrivare al duello d'obbligo in un deliro di auto distrutte, balzi acrobatici e folle in preda al panico, il film si svolge con un inseguimento all'ultimo respiro, con rare pause fra le braccia dell'amata, la dolce Liv Tyler." (Alessandra Levantesi, 'La Stampa', 20 giugno 2008)"I 'fantastici quattro' del cinema americano non ce la fanno a bilanciare tutte le infinite parti di animazione digitale in cui il pupazzone di Hulk sbraita e mena, seppur tristemente. A vederlo sembra un Big Jim pieno di anabolizzanti caduto per sbaglio in una vaschetta di gelato al pistacchio. L'unico momento vibrante di questa gelateria animata è quando Hulk si prende Liv Tyler e se la porta in una grotta, un po' 'La bella e la bestia', un po' 'King Kong'." (Dario Zonta, 'L'Unità', 20 giugno 2008)"Non è un sequel il film di Leterrier, ma la versione revisionista e corretta del film di cinque anni fa. Si sa che i fumettari assumono spesso i contorni di una setta religiosa, sempre in difesa delle sacre scritture delle nuvole parlanti: il regista taiwanese aveva osato mettere in campo conflitti edipici e bipolari, difficoltà intime e dolori epici, non solo e semplicemente la formula del "superproblema". Il risultato però è un papocchio fracassone e un po' sdolcinato, in cui si perde lo spirito dell'antieroe controverso per renderlo semplicemente un (futuro) supereroe finalmente "buono" e inquadrato. Dietro un tentativo di blandire i fan(atici) del gigante pistacchione, c'è chiaramente la volontà di lanciare una lunga volata all'arrivo sul grande schermo dei Vendicatori e del rafforzarsi definitivo della joint-venture Universal- Marvel (ecco il perché dell'incontro finale tra il generale cattivo e Iron Man-Tony Stark) ed è debitore soprattutto della serie tv con Lou Ferrigno e dell'ossessione del protagonista di voler "guarire" dalla sua diversità che considera una malattia. Hulk- Bruce Banner è fuggito in una favela brasiliana dopo essere stato la cavia imprudente di se stesso, non vuole più spendere un patrimonio in vestiti e ricerca, ritorno e catarsi sono gli ovvi binari in cui si svolge la narrazione, senza colpi di scena. Edward Norton gioca di rimessa, Liv Tyler ha una fissità di sguardo imbarazzante, il mercenario con i reumatismi Tim Roth usa tutto il suo mestiere per sembrare credibile e ce la fa a stento. Persino gli effetti speciali non sono indimenticabili e le scene clou sono così elementari da richiamare apertamente classici del cinema-monstre. Insomma, qui di verde sembrano esserci solo i dollari (50 milioni nel primo fine settimana) che la furbastra svolta commerciale ha portato." (Boris Sollazzo, 'Liberazione', 20 giugno 2008)"I 'cammei' del creatore di 'Hulk', Stan Lee, e di Lou Ferrigno (l'interprete della vecchia serie tv) non sono una novità. Più curioso quello di Robert Downey jr. che, alla fine, compare come Tony Stark, alias Iron Man, per annunciare una non troppo precisata sinergia cinematografica a venire tra più personaggi della Marvel." (Roberto Nepoti, la Repubblica', 20 giugno 2008)"Nulla da eccepire sui tanti spassosi momenti di violenza incandescente, che ispirandosi ai famosi disegni inscenano disastri a gò gò, ma nonostante il film si rifaccia a 'King Kong' nel delineare il rapporto tra la Bella e la Bestia, tutto ciò che non è catastrofale finisce per ristagnare. I personaggi non hanno spessore anche perché, come è parso di capire da certe dichiarazioni di Norton, sceneggiatore oltre che protagonista, sono state tagliate scene in cui si approfondivano gli aspetti psicologici e la morale della favola. Meno male, direi, perché in questo modo 'L'incredibile Hulk' non avanza pretese e resta nell'ambito di una fastosa baracconata dalla quale si esce frastornati ma felici." (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 20 giugno 2008)"I supereroi sono evidentemente imprescindibili per una Hollywood che vuole maggiori incassi e minori rischi. Salvando così l'immeritevole personaggio e immolando il prestigioso ma inadatto regista, tocca alle mani svelte ma rozze di Louis Le terrier cavare sangue dalle rape. E i ragazzini avranno un'altra sagra di effetti speciali, sempre più visti, sempre meno stupefacenti. (...) Cercate di evitare ai vostri figli di buttare il loro tempo." (Maurizio Cabona, 'Il Giornale', 20 giugno 2008)
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Titolo Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo
Titolo originale Indiana Jones And The Kingdom Of The Crystal Skull
Anno 2008
Regista Steven Spielberg
Durata 125
Paese USA
Genere avventura
Trama Nel 1957, durante la Guerra Fredda, Indy e Mac sono riusciti a salvare la pelle riparando dalle truppe sovietiche in un remoto centro d'aviazione nel deserto del Southwest. Tuttavia, quando Indy, il professor Jones, torna finalmente alla vita normale e al suo Marshall College si rende conto che le cose stanno andando sempre peggio. Il decano del college lo avverte, in amicizia, che le sue ultime missioni lo hanno reso tanto sospetto agli occhi del governo americano da aver addirittura chiesto all'università di allontanarlo dall'insegnamento. Mentre si aggira sconsolato appena fuori città, Indy incontra il giovane ribelle Mutt Williams che gli fa una proposta irrinunciabile per un archeologo che si rispetti. Se lo seguirà, potrà ritrovare il leggendario Teschio di Cristallo di Akator. Indy e Mutt si imbarcano in quest'affascinante avventura verso gli angoli più remoti del Perù, ma hanno subito modo di capire di aver dei non richiesti compagni di viaggio. E' infatti sulle loro tracce un'unità speciale delle truppe sovietiche che, guidata dall'algida Irina Spalko è alla ricerca della mistica reliquia di Akator, i cui poteri soprannaturali potrebbero permettere all'Impero Sovietico di dominare il Mondo.Note - GEORGE LUCAS FIGURA ANCHE TRA I PRODUTTORI ESECUTIVI.- FUORI CONCORSO AL 61. FESTIVAL DI CANNES (2008).Critica "Le leggende vanno soggette a una sorte ben strana: da una parte si dice che non invecchino mai; dall'altra tutti stanno in agguato per vedere se sono invecchiate. Ebbene, tra il penultimo episodio della saga, 'L'ultima crociata' e 'Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo' non sembrano passati vent'anni ma pochi mesi. Qualche segno del tempo sul viso di Harrison Ford e Karen Allen, d'accordo: però il 'twist' è rimasto lo stesso, il divertimento anche e neppure il pubblico minorenne avrà da lamentarsi delle nuove imprese del vecchio archeologo col vizio dell'avventura (...) Tutto come negli episodi precedenti, con i comunisti al posto dei nazi, ma inclusi i crolli apocalittici, il contorno fobico di animalacci l'intreccio indissolubile di generi che ha fatto la fortuna della serie." (Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 19 maggio 2008)"'Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo', capitolo quattro della saga dell'archeologo più rompicollo del pianeta, funziona alla grande soprattutto nella prima parte. Steven Spielberg alla regia, Harrison Ford con cappello e frusta, George Lucas al pensatoio (Indy è creatura più sua che di Steve) hanno dato il meglio di sé, e il loro 'meglio' è roba buona." (Alberto Crespi, 'L'Unità', 19 maggio 2008)"Anche Indiana Jones non è più quello d'una volta. Le sue avventure sono sempre un concentrato di omaggi al cinema e ai fumetti del nonno mixati con un cocktail di archeologia, esoterismo e ossessioni di massa. Ma da quando venne al mondo, nel remoto 1981, è cambiato tutto. Il gusto del vintage si è inflazionato in ogni campo, l'esoterismo ha generato legioni di film e romanzi non sempre geniali, mentre il digitale ha tecnologizzato e banalizzato il gusto artigianale per le prodezze e gli effetti speciali che una volta magnetizzava le platee. Così a Spielberg e ai suoi complici non resta che giocare sull'invecchiamento del personaggio e portare tutto negli anni Cinquanta puntando sui clichè d'epoca e sulla simpatia a prova di bomba (atomica) di Harrison Ford. (...) Peccato, perché l'idea del figlio segreto e la resurrezione della sempre deliziosa Karen Allen, scomparsa dopo 'I predatori dell'arca perduta', erano una carta che si poteva giocare meglio. Ma anche il consumo di cinema è cambiato radicalmente in questi quasi trent'anni. Oggi le Major sono quotate in Borsa e i blockbuster devono rastrellare un massimo di quattrini nel minor tempo possibile; così i margini di rischio (e di invenzione) si assottigliano e quando si mette mano a un sequel è proibito alterare la formula vincente. Di qui i film sempre uguali come la Coca-Cola, che in questo caso significa: poco o nessun lavoro sui personaggi e attenzione concentrata su trovate e colpi di scena spettacolari. Che garantiscono ritmo e adrenalina (difficile guardare l'orologio, siamo onesti), ma conservano un che di meccanico e insoddisfacente. E giù col più rodato repertorio archeo-horror: città sepolte, passaggi segreti, cripte zeppe di tesori come il Louvre, cadaveri freschi dopo secoli che si mummificano a contatto con l'aria, maschere mortuarie d'oro. E naturalmente scorpioni, sabbie mobili, formiche fameliche come piranha, serpenti usati come corde, e ancora liane, dirupi, burroni, cascate, salti nel vuoto. Fino alla rivelazione finale, da non anticipare, che salda il filone archeo con quello fantascientifico in un cortocircuito che sarebbe bello poter prendere più sul serio. Si capisce che Cannes abbia bisogno anche di film come Indiana Jones, ma è un po' malinconico usare il più potente trampolino del mondo per lanciare i film meno riusciti dei grandi registi." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 19 maggio 2008)"Si tratta, di un film stracolmo di avventura e d'azione, girato con la solita mano sapiente di Spielberg e dislocato in set di esotica suggestione nel quale, però, battono la fiacca tre ingredienti decisivi del prototipo: la novità del tono, la freschezza visionaria e il citazionismo cinéfilo. Tutto sa di già visto, non solo nel tipo di approccio figurativo, ma soprattutto nel delicato equilibrio tra ritmo indiavolato, (auto)ironia dei personaggi e sottotesto vintage: difficile, insomma, che i costumi, i caratteri, le musiche e persino gli effetti speciali provochino le stesse piacevoli sensazioni presso un pubblico cresciuto e smaliziato. Ciò non vuol dire che Indiana Jones n°4 sarà snobbato dai botteghini, ma l'eventuale successo potrà essere confuso con quello di uno qualsiasi dei tanti blockbuster contemporanei. (...) Botte da orbi, inseguimenti nella giungla, zombies assassini, caverne magiche, scorpioni, formiche e serpenti... Ma la frusta di Indy non è più quella sferzante di un tempo ed è fatale che al poveretto tocchi un finale di melensaggine imbarazzante." (Valerio Caprara, 'Il Mattino', 19 maggio 2008)"Un' avventura che tra inseguimenti nella giungla, assalti di voraci formiche rosse e salti da mega-cascate porterà tutti all' interno di una particolarissima piramide maya. Tra cunicoli pieni di ragnatele, attacchi proditorii di indios redivivi e tesori accumulati dagli alieni, il film mescola avventura e fantascienza, alla ricerca di una chiave di divertimento adatta ai nuovi tempi, ma finisce irrimediabilmente per soffocare la componente spensieratamente fanciullesca del protagonista: la rivelazione della paternità finisce per attribuire a Indiana la responsabilità di un ruolo che negli altri film non aveva. Non ci sono più i litigi un po' infantili con la Marion del primo film o con il piccolo cinesino del secondo: Indy mette la testa a posto, lotta contro i nemici della libertà americana, non ruba più niente e alla fine «aiuta» gli extraterrestri a ritrovare la via del cielo, in un film che sembra fatto soprattutto per i fan già convinti e che dà l' impressione di essere stato più divertente da ideare e girare piuttosto che da guardare." (Paolo Mereghetti, 'Corriere della Sera', 19 maggio 2008)"Nella sceneggiatura è prevalsa la visione Lucas, con la scelta fantascientifica del finale e con vari episodi del suo inizio, che sono la parte più briosa e originale del film. Anche il lato educativo di Indiana Jones è tipico di Lucas. Ed è stato Lucas il più netto assertore che la quarta puntata è la migliore, giudizio non condiviso da chi alle precedenti era affezionato. (...) Il film diretto da Spielberg è un film pensato da Lucas. Del resto è stato lui la matrice del progetto Indiana Jones. Spielberg, il quale ha fatto il primo Indiana Jones e i seguiti per esigenze soprattutto commerciali, dopo aver fallito nell' acquisto dei diritti per la serie di 007, della quale gli resterà più tardi solo una non memorabile interpretazione di Sean Connery nel ruolo di padre di Indiana Jones. Inoltre Lucas è regista visivo, anziché di attori. E qui gli attori hanno veramente molto da saltare e generalmente da dimenarsi, ma ben poco da dire. Mai come al 'Regno del teschio di cristallo' potrebbe applicarsi lo slogan: 'Potevamo stupirvi con gli effetti speciali: l'abbiamo fatto!'." (Maurizio Cabona, 'Il Giornale', 19 maggio 2008)
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Titolo Inkheart - La leggenda di Cuore d'Inchiostro
Titolo originale Inkheart
Anno 2008
Regista Iain Softley
Durata 106
Paese GERMANIA, USA, GRAN BRETAGNA
Genere avventura, fantasy
Trama Mortimer "Mo" Folchart e sua figlia Meggie hanno un dono molto particolare: appassionati lettori di libri, riescono magicamente a dar vita ai personaggi delle storie semplicemente leggendo ad alta voce. Tuttavia, ogni volta che un eroe della letteratura compare nella realtà una persona prende il suo posto tra le pagine del libro. Un giorno, mentre sta vagabondando in una vecchia libreria, Mo ritrova 'Inkheart', un romanzo d'avventura medievale che cercava da tempo, poiché sua moglie Rose vi è stata catapultata quando Meggie aveva solo tre anni. Per riuscire a scovare e liberare Rose, padre e figlia, insieme ad una schiera di alleati del mondo reale e di quello fantastico, dovranno vedersela con il malvagio Capricorn...Critica "Ogni tanto il vertiginoso gioco tra mondi diversi si complica e si ingarbuglia, ma più che la logica del racconto sembra far difetto a 'Inkheart' il coraggio di portare fino alle estreme conseguenze l'intreccio tra realtà e fantasia, tra personaggi nati dai libri e quelli usciti dal mondo quotidiano. Il gioco poteva essere ben più vertiginoso e coinvolgente e invece un cast altalenante, a cominciare da un Brendan Fraser che porta eternamente scolpito in faccia un sorrisino inespressivo, e una regia solo scolastica stentano a far decollare il film. Ci provano alcuni indovinati effetti speciali - l'ombra finale è decisamente riuscita - e l'idea che i personaggi dei racconti possano diventare così veri per i loro lettori da trasformarsi in esseri di carne ed ossa. A volte succede anche al cinema, ma bisognerebbe che il regista credesse a quello che filma come i migliori scrittori fanno con quello che scrivono." (Paolo Mereghetti, 'Corriere della Sera', 20 febbraio 2009)"Fantasy molto infantile, senza le soluzioni lussureggianti o la portata allegorica di altri casi ('Il signore degli anelli'). Ci si accontenta." (Paolo D'Agostini, 'la Repubblica', 20 febbraio 2009)"Non è solo una location suggestiva: il romanzo della Funke è ambientato proprio sulla Riviera di Ponente; e l'autore del libro cui Brendan Fraser dà la caccia è intitolato appunto 'Inkheart', si chiama, bontà dell'autrice, Fenoglio. Difficile però credere che l'autore del 'Partigiano Johnny' avrebbe gradito l'omaggio. Tutto infatti si riduce a un duello a colpi di effetti (poco) speciali, che trascura o sfrutta superficialmente, le possibilità dischiuse dalla combinazione fra i due mondi. I soli momenti di emozione sono l'incontro fra lo scrittore stupefatto e i suoi personaggi, e in particolare il mangiafuoco Paul Bettany, che scopre sgomento di dover morire alla fine del libro, ma si ribella ("Tu non sei il mio dio!"). E la battaglia. finale, combattuta scrivendo in diretta pagine che costringano i cattivi trionfanti a rientrare nei ranghi. Il resto è prevedibile, sia come eventi che come immagini. Stupisce trovare in un film così svogliato attori importanti come Broadbent, Bettany o Helen Mirren. Mentre Jennifer Connelly, nella vita signora Bettany, si concede un'apparizione non accreditata. E Andy Serkis, qui perfido Capricorn, fa rimpiangere il suo celebre clone in 3D: il Gollum del 'Signore degli anelli'." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 20 febbraio 2009)"Fraser si caccia in una fantastica avventura in cui rimangono coinvolti l'eccentrica zia Helen Mirren e l'autore della storia Jim Broadbent. Destinato, nella regia semplice di Iain Softley, a un pubblico di bambini. 'Inkheart' è un inno alla rapinosa magia della lettura; per noi ha il valore aggiunto di una pittoresca cornice ligure fra mare (Alassio) e monti." (Alessandra Levantesi, 'La Stampa', 20 febbraio 2009)
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Titolo Inside Man
Titolo originale Inside Man
Anno 2006
Regista Spike Lee
Durata 129
Paese USA, GRAN BRETAGNA
Genere drammatico, thriller
Trama Quattro persone mascherate da imbianchini fanno irruzione nell'edificio della Manhattan Trust, caposaldo finanziario di Wall Street, e in pochi minuti prendono in ostaggio cinquanta persone tra impiegati e clienti della prestigiosa banca, intimando loro di indossare delle tute e delle maschere. Nel frattempo, sul luogo della rapina intervengono le forze di polizia e tra loro figura il detective Keith Frazier chiamato a negoziare con il capo dei malviventi, Dalton Russell, un uomo estremamente intelligente e dai nervi saldi che riesce a mantenere in scacco le forze dell'ordine con un piano completamente imprevedibile e ben studiato. Frazier inizia a sospettare che dietro a tutto ciò vi sia qualcosa che gli viene tenuto nascosto, quando sul luogo appare Madeline White, una mediatrice che chiede di interloquire da sola con Russell. Cosa cercano esattamente Russell e i suoi? Che ruolo hanno in questa faccenda Madeline White e il presidente del consiglio d'amministrazione della Manhattan Trust, l'imprenditore Arthur Case?... Questi gli interrogativi a cui Frazier cerca di dare risposta tentando allo stesso tempo di salvare la vita degli ostaggi.Critica "Con "Inside Man" Spike Lee ritorva la forma del grande "La 25ma ora" dopo la pausa minore di "Lei mi odia". In primo luogo, c'è lo stile di regia: il senso dell'inquadratura (ciascuna è una lezione di cinema), l'alternanza del montaggio nervoso e serrato (ha a che vedere, però, con l'estetica videoclippara) con piani più lunghi e distesi; l'uso competente della musica. Poi, Spike gioca sapientemente con la tradizione del noir; non per fare cinofilia, bensì per situare il proprio film a una sorta di crocevia tra le configurazioni che il genere ha assunto attraverso i decenni (il dandismo di Washington somiglia molto a quello di Humphrey Bogart). E fin qui, si parla di padronanza della materia e di eleganza della messa in scena, che sono i fondamenti del cinema. In sovrappiù, Lee riesce a mettere dentro un film di genere fatto secondo le regole i temi d'attualità che - giustamente - lo ossessionano: i timori sulla metamorfosi dell'America seguita all'11 settembre; le relazioni interrazziali, sempre in primo piano nella sua filmografia; le collusioni tra onesto e disonesto, giusto e ingiusto. Ci aggiunge una dose di humour, tocco finale di un film che unisce piaceri del 'classicismo' e osservazione della realtà come, oggi, ben pochi altri sanno fare." (Roberto Nepoti, "la Repubblica", 7 aprile 2006)"Nel nuovo film di Spike Lee a è ciò che sembra e il film stesso non somiglia molto agli altri del suo autore. A prima vista infatti 'Inside Man', nuovo salto hollywoodiano del grande regista afroamericano, è un classico thriller, sottogenere rapina in banca. (...) Diciamo pure che Spike Lee gioca con gli spettatori più o meno come fa il rapinatore con la polizia. Perché alla fine gli ostaggi verranno rilasciati, ce lo dicono i continui flashforward che spezzano l'azione e aprono nuove piste. Anzi, come si vede negli interrogatori, forse non tutti erano semplici ostaggi, forse i rapinatori avevano dei basisti. Ma di che colpo parliamo se dal caveau non manca neanche un dollaro, e mentre i rapinatori sembrano volatilizzarsi l'anziano fondatore della banca incarica una misteriosa "mediatrice" dai mille agganci (Jodie Foster, sempre perfetta) di gestire trattative separate? A questo punto è chiaro che 'Inside Man' non è (solo) un thriller, che l'essenziale non sta nella suspense (relativa) né nei colpi di scena quasi fuori tempo massimo, ma nei mille dettagli di una regia così sapiente da rischiare il virtuosismo, nello sguardo caustico riservato alla New York post-11 settembre, nelle digressioni spesso assai godibili (l'ex-moglie albanese convocata come interprete...). In breve nel modo in cui Spike Lee, senza parere, insiste su due o tre temi chiave: il razzismo di oggi e di sempre (il sikh preso per un arabo solo perché porta il turbante), i peccati originali del capitalismo, l'intreccio di interessi che genera addirittura collusioni fra sogno americano e incubo nazista, e via arpeggiando su tasti sempre scottanti senza curarsi troppo né della verosimiglianza storica né della coerenza narrativa (vedi Plummer, troppo giovane per il suo personaggio). L'insieme seduce ma non conquista, anzi la convivenza fra temi forti (mimetizzati) e false piste è a tratti irritante. E anche se questo bandito mascherato che cancella il volto degli ostaggi (curiose e forse sintomatiche le convergenze con 'V for Vendetta'), strano incrocio fra un terrorista, un simulatore e un rapinatore, è un personaggio inquietante e molto attuale, a forza di digressioni e ghirigori stavolta il battagliero Spike (è appena uscita da Kowalski la sua fluviale e appassionante autobiografia) perde forza e resta a metà del guado." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 7 aprile 2006)"Altro che 'Basic Instinct'. Qui l'unico istinto straripante è quello di Spike Lee, che si conferma uno dei registi più carismatici attualmente attivi (non solo) a Hollywood e dintorni. Di rapine clamorose la storia del cinema ne ha allestite infatti a bizzeffe, ma 'Inside Man' riesce a diventare memorabile senza ricorrere a vezzi d'autore e, anzi, restando fedele ai canoni classici: segno inequivocabile, se ce ne fosse ancora bisogno, che non esistono gerarchie d'argomento o diktat di messaggio, ma solo imprese di talento oppure operazioni di marketing. (...) Niente è lasciato al caso: dalla sceneggiatura a orologeria dell'inedito Russell Gerwitz alla colonna sonora virata al jazz del mitico Terence Blanchard, dal filo narrativo a scatole cinesi (flash-back rievocativi e flash-forward d'azione) alle magistrali sfumature fotografiche di Matthew Libatique. Con in surplus il coerente approccio di Spike Lee, in grado di manipolare le stimmate del bene e del male in un'allegoria noir che confonde le caratteristiche e soprattutto le motivazioni dei cacciatori e dei cacciati. Allo spettatore, manicheo per definizione, spetta il compito d'inorridire al cospetto dei vizi sociali & finanziari americani, mentre il regista, senza rinunciare alle sue posizioni anti-sistema, bada al sodo: un ritmo nervoso e sincopato, attraversato da scariche di humour e cinismo in parti uguali, un blocco di recitazioni coinvolgenti e calibrate, volteggi di ripresa, tensioni, ultimatum e passi falsi sino al finale per una volta tutt'altro che scontato." (Valerio Caprara, 'Il Mattino', 8 aprile 2006)"Una delle migliori rapine in banca del decennio: Spike Lee fa centro, la sua cinepresa nervosissima fa miracoli. (...) Una gara di cinismo in un film originale, dal ritmo a vortice in cui l' autore angelo-diavolo custode, mescola le carte del Bene e del Male in una sghemba struttura di racconto-quiz, saldando vecchie multe e rancori. La magistrale sceneggiatura con humour del deb Russell Gerwitz commercia in strapotere mediatico e omaggia i classici 70: insabbiare è sempre il consiglio finale. Ma dice l'alta finanza: 'Se scorre il sangue è il momento di comprare'." (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 8 aprile 2006)
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Titolo International, The
Titolo originale International, The
Anno 2008
Regista Tom Tykwer
Durata 122
Paese USA, GERMANIA, GRAN BRETAGNA
Genere thriller
Trama Louis Salinger, agente dell'Interpol, ed Eleanor Whitman, assistente procuratore distrettuale di New York, riescono a smascherare una serie di attività finanziarie illegali atte a sostenere il terrorismo e le guerre a livello internazionale. Tuttavia, le loro brillanti iniziative metteranno i due nel centro del mirino.Note - PRESENTATO FUORI CONCORSO AL 59. FESTIVAL DI BERLINO (2009).- TRA I PRODUTTORI ESECUTIVI FIGURA ANCHE JOHN WOO.Critica "L'ambizione del regista sarebbe quella di resuscitare la tradizione del thriller politico, come 'Perché un assassinio' di Pakula o 'Il maratoneta' di Schlesinger, ma il risultato è solo un catalogo di luoghi comuni, a cominciare dalla barba diligentissimamente incolta dell'agente Interpol Louis Salinger (un Clive Owen piuttosto monocorde) per continuare con le banche ormai, diventate il nemico pubblico numero uno dell'umanità. (...) Girato tra New York, Berlino, l'Italia e Istanbul, con una sparatoria ultrafracassona al Guggenheim (ricostruito per il bisogno in un ex fabbrica di locomotive), il film procede tra finti colpi di scena e un po' di tensione fino all'immancabile finale aperto. Prevedibile anche lui." (Paolo Mereghetti, 'Corriere della Sera', 6 febbraio 2009)"Per non farci mancare proprio nulla, la sceneggiatura ci infila poi le Brigate Rosse, un killer della mafia e un ufficiale dei carabinieri corrotto. Attivissimo, questi ammazza uno dei cecchini, confonde le prove e fa rimpatriare d'autorità i nostri eroi. Peccato che Tykwer non gli abbia fatto indossate la feluca col pennacchio, come ai carabinieri di Pinocchio. Così, sarebbe stato perfetto." (Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 6 febbraio 2009)"Come spesso succede ai thriller politici (Tykwer cita esempi illustri: 'Perché un assassinio' di Pakula, 'Il maratoneta' di Schlesinger), la trama di 'The International' è pura follia, e il miglior commento spetta all'ex agente della Stasi Armin Muller-Stahl, ora al soldo della banca, quando Owen gli chiede come si senta, lui ex comunista, a lavorare per il Capitale.(...) 'The International' non è un grande film: è un film divertente, girato magistralmente, che dice cose agghiaccianti. Al vostro posto, quando uscirà nei cinema, ci andremmo." (Alberto Crespi, 'L'Unità', 6 febbraio 2009)"Insomma, un gran guazzabuglio. Carabinieri corrotti, politici berlusconiani che alludono a complicate vicende finanziarie. Il tutto in mezzo a un intrigo internazionale che ha spazio anche per un'altra presenza italiana: quella del bel tenebroso Luca Calvani - è il suo nome vero, non è una allusione a Roberto Calvi, questa - ex vincitore dell'Isola dei famosi, e qui nelle vesti del figlio di Barbareschi. Luca Calvani sfoggia un inglese perfetto: prima di naufragare nell'Isola, ha passato molti anni negli Stati Uniti, facendo i lavori più umili, proprio come nelle migliori biografie degli artisti maledetti. E a voler essere ancora più precisi, c'è una terza presenza italiana: quando doveva strisciare sul tetto dell'hotel Gallia, di notte, Naomi Watts ha chiesto una controfigura. È italiana: si chiama Laura Fimognari, e ha un bellissimo volto luminoso." (Luca Vinci, 'Libero', 6 febbraio 2009)"Opera dalla ritmica ossessiva e ripetitiva, dai semiesotici scenari, concentrata come fosse un documentario, ma non senza disperdersi, sui rapporti incestuosi tra mafia, potere politico, nuove Brigate Rosse, ex burocrati della Ddr, tirannelli africani, mercato delle armi e finanza internazionale, è stata scritta, non senza humour anti-terrorista, dall'inglese Eric Warren Singer. Ed è stata realizzata da un team creativo tutto tedesco e distribuita nel mondo dalla major Usa Sony- Columbia. Star Clive Owen, agente dell'Interpol, e Naomi Watts. Per noi il film ha anche la spassosa particolarità di sbarazzarsi quasi subito di Luca Barbareschi, nel ruolo di Umberto Calini, faccendiere mafioso e aspirante leader politico con il suo partito sciovinista 'Futuro Italiano', assassinato da un misterioso cecchino, e che è il riassunto piuttosto stravagante di Calvi, Agnelli, Berlusconi, 'Valzer con Bashir', Totò Riina e del suo personaggio di razzista, divorato dagli indios, in 'Cannibal Holocaust'. Il film, già uscito con successo in Gran Bretagna, patria del genere 007, nonostante tenga fuori dalla porta ogni pratica licenziosa e ogni teoria sovversiva, due o tre cose nuove sul genere thriller le fa vedere. Il regista è lo stesso di 'Lola corre' sa ben dividere i tempi del dialogo dal tempo dell'azione, l'effetto sorpresa e il pressing sullo spettatore. Certo non ha la fantasia destabilizzante di un Quaresma. Non a caso ha detto: 'il thriller è la Champions League della regia cinematografica', ma in finalissima non ci arriverà mai." (Roberto Silvestri, 'Il Manifesto', 6 febbraio 2009)"Nel gioco sono coinvolti tutti americani e russi, cinesi europei, ebrei e musulmani. Pecunia non olet non è il motto ma la sostanza. Alla fine gli ideali non vincono ma si rendono qualche bella soddisfazione. Il film si chiama 'The International' lo ha diretto il tedesco Tom Tykwer ('Lola corre') o, piuttosto, le scene madri all'interno del Guggenheim di Manhattan o sui tetti di Istanbul, hanno diretto lui. Il modello alto del political-killer alla Pakula o alla Schlesinger resta però lontano." (Andrea Martini, 'Quotidiano Nazionale', 6 febbraio 2009)"'The International' è un melange abbastanza riuscito di tensione e paranoia da film americano anni '70, con tanto di doppio sparo modello JFK , e di j'accuse contro l'intreccio globale tra capitale, armi e morte. «E' un film che racconta la cruda realtà», afferma il quarantaquattrenne regista tedesco, «certo non parlo di tutte le banche, ma molte sono proprio come le ho descritte in questo lavoro e comunque questa è la filosofia che governa oggi il mondo e su cui passa la nostra vita». Da tenere a mente una dinamica e adrenalinica sparatoria al museo Guggenheim di New York dal notevole impatto visivo: l'arte moderna distrutta in mille pezzi che qualche patriota e maligno giornalista italiano, per vendicarsi dei cattivi tedeschi, traslerà forzatamente come metafora degli effetti provocati dal film di Tykwer." (Davide Turrini, 'Liberazione', 6 febbraio 2009)
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Titolo Into the Wild - Nelle terre selvagge
Titolo originale Into The Wild
Anno 2007
Regista Sean Penn
Durata 148
Paese USA
Genere avventura, drammatico
Trama Il film racconta la vera storia di Christopher McCandless, detto Alex Supertramp. Dopo aver conseguito la laurea nel 1992, Christopher decide di abbandonare ogni cosa per andare a vivere tra i ghiacci dell'Alaska. E' un modo per mettere alla prova la sua capacità di vivere senza gli 'orpelli' (soldi, carte di credito, telefonini, ecc..) che il consumismo ha reso indispensabili. Per resistere alla violenza del suo pur ricco ambiente familiare si è nutrito fin dall'infanzia dei libri di Thoreau, London o Tolstoj, tutti quei grandi che, pur essendo intellettuali, hanno scelto la vita a contato con la natura. Nel suo percorso incontrerà personaggi che seguendo altri percorsi hanno scelto di fare il suo stesso cammino e che lo sosterranno con il loro amore.Note - PREMIO 'FASTWEB' ALLA II^ EDIZIONE DI 'CINEMA. FESTA INTERNAZIONALE DI ROMA' (SEZIONE 'PREMIÈRE', 2007).- GOLDEN GLOBE 2008 PER LA MIGLIOR CANZONE ORIGINALE. ERA STATO CANDIDATO ANCHE PER LA MIGLIOR COLONNA SONORA.- CANDIDATO ALL'OSCAR 2008 PER: MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA (HAL HOLBROOK), MONTAGGIO E COLONNA SONORA.- CANDIDATO AL DAVID DI DONATELLO 2008 COME MIGLIOR FILM STRANIERO.- CANDIDATO AL NASTRO D'ARGENTO 2008 COME MIGLIOR FILM EXTRAEUROPEO.Critica "Responsabile anche della sceneggiatura, Penn rompe da subito la continuità spaziale e temporale per ridurre al minimo l'enfasi epica del viaggio e approfondire invece alcuni momenti fondanti di quella esperienza. Come se i vari episodi vissuti dal protagonista, che intanto si fa chiamare Alex Supertramp (il super camminatore), fossero piuttosto delle divagazioni filosofiche sui singoli aspetti della mitologia americana. (...) Penn, che cercava di realizzare questo film da più di dieci anni e che si augura di far battere i cuori dei giovani più velocemente offrendo loro l'indicazione di 'un percorso alla ricerca di una maggior libertà e una minor dipendenza dal confort e dal consumismo', sceglie uno stile di regia che cerca di adattarsi alla varietà dei temi affrontati, modificando continuamente il modo di riprendere, a volte sottolineando la bellezza selvaggia della Natura, altre volte spezzando l'inquadratura come per far dialogare tra loro immagini diverse, altre volte ancora scommettendo tutto sui primissimi piani e la forza espressiva degli attori. Tutti davvero straordinari. Per costringerci, con un drammatico finale che non sveliamo, a fare i conti con l'ultimo 'messaggio' lasciato da Chris: la propria felicità va divisa con gli altri." (Paolo Mereghetti, 'Corriere della Sera', 25 ottobre 2007)"Nel rievocare il ritorno del ragazzo (...) alle utopie giovanili degli alternativi anni '60, Penn elabora un affresco solenne, solidale e abilmente naif nei confronti delle fatidiche teorie della fuga dalla civiltà o del ritorno alla natura, veristico sino al dettaglio nello stupendo repertorio paesaggistico e perfettamente cadenzato su musica e canzoni di Eddie Vedder, il cantante e paroliere dei Pearl Jam. Contano poco, per la verità, le superflue note psicoanalitiche e il connesso e banalotto messaggio anti-consumistico: la fluidità, la credibilità, il lirismo di 'Into the Wild' si esaltano a contatto dei personaggi pittoreschi che condividono col protagonista il fervore visionario suggeritogli dai libri-culto di Thoreau, Jack London, Byron o Tolstoj." (Valerio Caprara, 'Il Mattino', 25 ottobre 2007)"Sean Penn tratta questo eremita ragazzino, deciso a vivere di caccia e bacche selvatiche, con infinito rispetto e ammirevole economia di mezzi. Ed ecco i diari, da cui estrae poche frasi di grande impatto (anche le parole sono cose, in solitudine). Ecco le tappe in cui sono scanditi due anni che valgono una vita (rinascita, infanzia, adolescenza, età adulta). Mentre il montaggio ci porta su e giù senza mai perdere di vista gli altri: la sorella, i genitori disperati, la hippy che in lui rivede il figlio perduto. O quel vecchio vedovo che vorrebbe adottarlo in una scena che commuoverebbe i sassi. La fugace apparizione di Bush sr. in tv, siamo nel 1992, ci ricorda che questa fuga nel wildness ha anche un senso politico. Vengono i brividi a pensare cosa avrebbe potuto farne Hollywood. Ma il film di Sean Penn, così limpido e personale, va diritto al cuore." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 25 ottobre 2007)"Il risultato è uno spettacolo complesso, con un personaggio al centro che cerca e si cerca, che cammina ma non fugge, che, per mirare alla perfezione, fa il vuoto attorno a sé, anche quando, oltre che sulla famiglia ormai lasciata alle spalle, potrebbe contare su nuovi concreti rapporti che in più momenti gli vengono proposti. La cifra solita dei film americani on the road, ma resa più intensa da continui approfondimenti psicologici forse solo un po' appesantiti qua e là da citazioni letterarie e filosofiche. Nei panni del vero McCandless, il giovane Emile Hirsch, già visto in 'Alpha Dog', di Nick Cassavetes. Selvatico, ma anche umano come serviva." (Gian Luigi Rondi, 'Il Tempo', 25 ottobre 2007)"'Into the Wild' di Sean Penn è un film notevole e ha ricevuto l'applauso più scrosciante della Festa. (...) Gli antecedenti culturali dell'operazione di Penn sono innumerevoli: c'è anche Kerouac ('Sulla strada', come no), ci sono le 'Strade blu' di William Least Heat-Moon, ci sono i vecchi western 'nordici' come il grande cielo o il cacciatore del Missouri. Ma c'è anche una cosa, l'unica davvero folgorante, che Sean ha detto ieri: 'La mia unica esperienza di contatto solitario con la natura risale alla mia gioventù, quando vivevo sulla riva dell'oceano e facevo il surfer'. Come a ha insegnato John Milius, in California essere un surfer non è praticare sport, non è come da noi giocare a pallone. E' una filosofia di vita, è l'appartenenza a una tribù. Ora che sappiamo che è un surfer (sì, 'è', al presente: non si smette mai di essere un surfer) capiamo molte cose di Sean Penn." (Alberto Crespi, 'L'Unità', 25 ottobre 2007)"Penn torna al suo passato da surfer solitario, si immedesima senza filtri nel suo eroe, celebra 'la ricerca della libertà'. Il coraggio di vivere la propria vita veramente. Il miglior film della festa, un capolavoro commovente e coraggioso." (Boris Sollazzo, 'Liberazione', 25 ottobre 2007)"Quello di Chris è un romanzo cinematografico di formazione che, tragicamente, nella vita reale, era rimasto interrotto. Sean Penn, con questo film, fa quello che Chris avrebbe voluto fare. Riportare a casa, condividere con gli altri, un'esperienza di vita piena di grazia che ha un valore universale e un messaggio spiegato e crudele. Come la bellezza della verità." (Luca Mastrantonio, 'Il Riformista', 25 ottobre 2007) "Nonostante la Natura mortifera, il sentimento del film è l'esaltazione delle bellezze naturali, l'inimicizia verso la civiltà, l'orgoglio di saper fare da sé e di mettersi alla prova, l'enfasi dell'Homo Faber, unita alla retorica On the Road. Il soggetto sembra vecchio di 25 anni. Il film un poco puerile è ben fatto, quasi ben recitato dal protagonista Emile Hirsch e da William Hurt, Vince Vaughn, Jena Malone." (Lietta Tornabuoni, 'La Stampa', 25 ottobre 2007)
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Titolo Invasion
Titolo originale Invasion, The
Anno 2006
Regista Oliver Hirschbiegel James McTeigue (regia aggiuntiva, non accreditato)
Durata 99
Paese USA
Genere fantascienza, horror
Trama Una misteriosa epidemia sta dilagando nel mondo. Tra le persone colpite dal morbo c'è anche la psichiatra Carol Bennell. Quando la donna si rende conto che si tratta di una malattia di provenienza extraterrestre, insieme al collega Ben Driscoll, cercherà di debellare il virus prima che sia troppo tardi.Note - REMAKE DI "L'INVASIONE DEGLI ULTRACORPI" (1956) DI DON SIEGEL.- INIZIALMENTE IL FILM ERA STATO ANNUNCIATO COME "THE VISITING" E NEL CORSO DELLA LAVORAZIONE IL REGISTA OLIVER HIRSCHBIEGEL E' STATO SOSTITUITO DAI FRATELLI WACHOWSKI.Critica "Terzo remake del film di Siegel, dopo le versioni di Kaufman e Ferrara, diretto dal tedesco Hirschbiegel ('La caduta') che si garantisce politicamente, con riferimenti continui a oggi, tanto che alla fine l'opzione è: con Bush in Iraq, o con gli alieni che iniettano il virus zombie durante il sonno. Il dr. Daniel Craig, perplesso e svogliato per tutto il film, poi promosso a 007, sceglie gli ultracorpi, tradendo la sua fantastica Nicole Kidman (l'unica con aspetto alieno) mammina divorziata con marito perfido (Jeremy Northam, che fa davvero paura) ma per fortuna con piccino immune. Finale adrenalinico con corsa di fuoco auto-elicottero e gran dispendio di vomito color foglie morte. Rimaneggiato nello script, il film parte bene ma rimane al bivio, non ha la forza di un ripensamento sulla civiltà in panne (vedi il best seller 'La strada' di Mc Carthy) ed inverte la marcia sul catastrofico con signora sola in piena apocalisse, elargendo lieto fine." (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 12 ottobre 2007)"'Invasion' aveva una trama che aveva sempre funzionato. Hirschbiegel pensò di cavarne una testimonianza su uno dei mali del nostro tempo: l'apatia, l'indifferenza che ci porta ad occuparci di troppe cose avendo interesse per poche. Il fatto di avere come protagonista una brava attrice e una bellissima donna come Nicole Kidman non gli ha giovato. La Kidman, alle prese anche con due uomini, cura in maniera anche un poco ossessiva il figlioletto. E questo sbilancia il racconto che, come un normale film d'azione, offre spaventi, inseguimenti di auto, pistole spianate e via dicendo. (..) Insomma, un film in carta carbone, un intrattenimento magari 'ben fatto' che assomiglia a tanti altri in circolazione." (Francesco Bolzoni, 'Avvenire', 12 ottobre 2007)"Dagli 'Invasati' di Jack Finney continuano a essere tratti film interessanti, violando la norma non scritta che dice: 'Da buon libro, brutto film'; e viceversa. Quello di Finney è invece un classico della letteratura. Probabilmente 'Invasion', il film trattone da Oliver Hirschgiebel (quello de 'La caduta', il film su Hitler) in origine era forse il migliore, dopo quello di Don Siegel, 'L'invasione degli ultracorpi'. Poi la produzione ha allontanato Hirschgiebel e assunto i fratelli Wachowsky di 'Matrix', salvo essere ancora scontenta e tenere il film nel cassetto per un anno. Sconcerta che, come nell' 'Invasione degli ultracorpi', si sia imposto ad 'Invasion' il lieto fine, al quale si erano sottratti gli altri due film sul tema, quelli di Philip Kaufman, 'Terrore dallo spazio profondo', e Abel Ferrara, 'Ultracorpi - L'invasione continua'. (...) Lodi invece al costumista, che ha vestito a dovere Nicole Kidman, in cachemire grigio e impermeabile inglese, cioè da signora per bene; bellezza e mestiere fanno il resto. Meno notevoli gli altri attori, Daniel Craig (l'amante) e Jeremy Northam (l'ex marito), àtoni perfino prima del contagio" (Maurizio Cabona, 'Il Giornale', 12 ottobre 2007)
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Titolo Iron Man
Titolo originale Iron Man
Anno 2008
Regista Jon Favreau
Durata 126
Paese USA
Genere azione, drammatico, fantascienza, fantasy
Trama Il milionario americano Tony Stark, proprietario delle Stark Industries e produttore di armi da guerra molto potenti, si reca in medio Oriente per presentare ai militari americani un nuovo, micidiale, missile. Mentre sta rientrando alla base, Stark resta vittima di un attacco da parte di terroristi che lo prendono in ostaggio. Nonostante le gravi ferite riportate, viene obbligato ad assemblare un missile per i suoi rapitori che, mettendo a sua disposizione un laboratorio e un assistente, il prigioniero Raza, non si rendono conto di avergli dato l'occasione per costruirsi un'armatura inattaccabile, dotata di lanciafiamme e in grado di mantenerlo in vita. Grazie alla sua creazione Stark riesce a liberarsi e a tornare in patria dove, una volta giunto, decide di interrompere la produzione di armi e utilizzare la sua nuova creazione, riveduta e migliorata, per difendere il mondo dai malvagi di turno.Note - STAN LEE FIGURA TRA I PRODUTTORI ESECUTIVI.- NEL FILM ERA PRESENTE UN CAMMEO DI SAMUEL L. JACKSON NEI PANNI DI NICK FURY, MA LA SEQUENZA E' STATA ELIMINTA IN FASE DI MONTAGGIO.- CANDIDATO ALL'OSCAR 2009 PER I MIGLIORI EFFETTI VISIVI.Critica "'Iron man' è l'anno zero del cinefumetto riesploso a Hollywood da dieci anni. La Marvel, ora indipendente dagli studios, cambia musica per il suo storico fumetto firmato Stan Lee. L'Afghanistan è un paese fuori controllo, l'eroe all'inizio 'Garante degli interessi dell'America nel mondo' decide di non costruire più armi ed entra in conflitto con l'esercito avendo come alleati un militare che è la bella copia di Colin Powell (epurato da Bush) e una segretaria liberal (incantevole Gwyneth Paltrow). Il vero asse del male è guidato da un affarista amico di Stark. Film divertente, leggero e pensante. La parola "hippie" ricorre spesso nel copione. L'ex alcolizzato e drogato Downey Jr. sa incarnare come nessun altro l'ironia di Iron Man, supereroe della contestazione." (Francesco Alò, 'Il Messaggero', 30 aprile 2008)"L'avventura è divertente perché non si basa solo su effetti speciali digitali, certo portentosi con le stimmate da robot nella scatenata parte finale, ma lavora anche con una buona sceneggiatura collettiva di cui l'autore Jon Favreau, valorizza i lati ingenui da Jekyll, senza tralasciare qualche messaggio di Obama contro il bellicismo di Bush e armi di distruzione paralizzanti. Non è il puro intrattenimento Marvel come vorrebbe il marketing: difatti muta ed evolve il rozzo anticomunismo del fumetto anni '60, facendone un playboy di garbo e di dubbio che Downey non più tanto jr. recita con una vigorosa ironia, avendo assicurato che nessuno meglio di lui, senza cercare negli istituti psichiatrici, poteva fare Iron man, questo robot rosso ed oro al titanio che se la prende con micidiali armi e micidiali bugie. Lui può: yes, he can." (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 1 maggio 2008)"Stavolta è scesa in campo direttamente la Marvel Comics in veste di produttore cinematografico per reinventare sullo schermo uno dei supereroi creati dal suo autore di punta, il geniale Stan Lee. (...) Il fumetto creato da Lee negli anni Sessanta viene sottoposto a un ruffiano aggiornamento politicamente corretto innestando uno degli scenari bellici di maggiore drammatica attualità. Il risultato è un film noioso nella prima parte e un action movie fantascientifico come tanti nella seconda. Il regista e sceneggiatore Jon Favreau si preoccupa più di nobilitare un prototipo della cultura di massa con messaggi pacifisti anti-Bush che di sperimentare le potenzialità visive del personaggio di carta. A poco servono gli effetti digitali che culminano nella sfida tra i due robot rivali e l'ironia di Robert Downey jr." (Alberto Castellano, 'Il Mattino', 3 maggio 2008)
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Titolo Italian Job, The
Titolo originale Italian Job, The
Anno 2003
Regista F. Gary Gray
Durata 110
Paese USA
Genere azione, drammatico
Trama Il ladro professionista Charlie Croke ha avuto un'idea geniale: un colpo audace, geniale, perfetto, ai danni di un palazzo di Venezia che ha fruttato ai suoi autori un enorme quantitativo di lingotti d'oro, contropartita di un importante accordo commerciale fra Italia e Cina. Quello che, tuttavia, Charlie e la sua banda - il basista Steve, l'informatico Lyle, l'autista Handsome Rob, l'esperto di esplosivi Left-Ear e lo scassinatore John Bridger - non si aspettano è che uno di loro possa fare il doppio gioco per impadronirsi dei lingotti. Subita la beffa, il gruppo decide di riorganizzarsi contando anche su Stella, una bellissima scassinatrice dai nervi d'acciaio. Ora Charlie ed i suoi hanno un nuovo obiettivo: seguire il traditore a Los Angeles e cercare di tornare in possesso dei lingotti. Il passo successivo è quello di bloccare il traffico della città manipolando i semafori e creando uno dei più grossi ingoghi stradali della storia.Note - REMAKE DI "UN COLPO ALL'ITALIANA" DI PETER COLLINSON (1969) CON MICHAEL CAINE.Critica "La tendenza a girare nuove versioni di vecchi film italiani dilaga. Accade in 'The Italian Job', spettacolare film d'azione camuffato da grande produzione. Di italiano c'è solo una frettolosa sequenza iniziale, girata nei canali di Venezia. (...) Il regista F. Gary Gray non è uno sprovveduto, gioca sapientemente con i primi piani, alternati a sciabolate spettacolari. Un buon cast capitanato dal muscolare pensoso Mark Wahlberg". (Adriano De Carlo, 'Il Giornale', 11 luglio 2003)"Il problema è che la scrittura del film è ai minimi termini, i dialoghi sono zeppi di insopportabili ehi, ehi, ehi secondo il peggior manierismo hollywoodiano. L'eroe è l'ex porno divo di 'Boogie Nights' Mark Whalberg, offuscato da Jason Stathman, nuovo macho che muove svelto le mani, ma tutto il rinomato cast non sembra granché convinto di un raccontino molto banale, che ristagna al centro, con lunghi qui pro quo di torti e ragioni e i lingotti che attendono di rispuntar fuori le casse. La bionda Charlize Theron è usata come esca in un suspense spesso prevedibile e in cui tutto si concentra nell'ultima mezz'ora di spot a turbo, nei crash negli incroci di auto, elicotteri e metropolitane nel caos losangelino. Il meglio è un magnifico attrezzo per manipolare il traffico a piacere agendo su segnaletica e semafori; quanti punti vale sulla patente?". (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 12 luglio 2003)"Come rappresentante del filone oggetto di revival, 'The Italian Job' condivide un po' la sorte dei film di spionaggio: più si fa povero d'anima, più si dà da fare per mascherarlo con gadget, botti, corse e stratagemmi drammaturgici di repertorio. Se le ultime avventure di 007 sono sponsorizzate fino all'esagerazione, questo sembra un promo unico per la Mini: in tre varianti cromatiche, la piccola auto è molto più protagonista della seconda parte del film di quanto lo siano in fondo i personaggi umani, interpretati da attori bellocci ma che non grondano propriamente comunicativa. Di spot, però, ce ne passa già la tivù, e in quantità industriali. Andarseli a vedere pagando il biglietto, sembra davvero troppo". (Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 12 luglio 2003)"Attori di qualità, regia fantastica: F. Gary Gray, trentenne, multipremiato per i video musicali di Mtv, ha la passione del cinema di genere e delle varianti che al genere si possono apportare, ha diretto 'The Negotiator', 'Set Off', 'Il risolutore', ha scelto per questo 'The Italian Job' di non utilizzare gli effetti speciali ma di ricorrere al massimo a qualche stuntmen, è capace di rendere interessante persino un'inquadratura in cui si vedano esclusivamente un'automobile ferma o un bicchiere posato sul tavolo". (Lietta Tornabuoni, 'La Stampa', 18 luglio 2003)"Gray non è un regista dozzinale ma sarà che c'è l'insopportabile Wahlberg, sarà che Norton recita perché obbligato da un contratto e si vede, ma tra inseguimenti, romanticismi e criminali cool alla 'Ocean's Eleven' (sempre più citato e copiato), 'The Italian Job' non va da nessuna parte. Né bello, né brutto. Un prodotto usa e getta come tanti, troppi, film targati Hollywood degli ultimi mesi. Il giovane Gray deve ancora trovare un equilibrio tra cinema di genere puro e il realismo gangsta rap degli esordi 'Ci vediamo venerdì' e 'Set It Off'. Corre il rischio di rimanere un'eterna promessa". (Francesco Alò, 'Il Messaggero', 5 settembre 2003)
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Titolo Italians
Titolo originale Italians
Anno 2008
Regista Giovanni Veronesi
Durata 116
Paese ITALIA
Genere commedia
Trama Fortunato, trasportatore per conto di una ditta di Roma che traffica con le Ferrari rubate negli Emirati Arabi, ha deciso che si vuole ritirare dagli affari e passare il testimone al suo giovane collega, Marcello. I due per l'ultimo viaggio di Fortunato che si rivelerà piuttosto vivace tra notti in discoteca, posti di blocco, un arresto e un'imprevista gara di velocità a bordo delle preziose automobili.Giulio, cinquant'enne dentista affermato, con un matrimonio fallito alle spalle, è stato invitato ad un convegno a S. Pietroburgo. Giulio non se la sente di partire, anche perché la separazione dalla moglie lo ha fatto sprofondare in una grave depressione. Tuttavia, dietro consiglio di un amico che gli prospetta un soggiorno all'insegna di una terapeutica libertà sessuale, sebbene con varie riserve, decide di partire. Sempre dietro consiglio dell'amico, Giulio entra in contatto con Vito Calzone, strampalato organizzatore on-line di viaggi a sfondo sessuale. A nulla varranno le raccomandazioni per una massima discrezione. Giulio, infatti si troverà coinvolto in una serie di bizzarre situazioni, tra cui un imbarazzante equivoco con Vera, la sua interprete.Note - LE RIPRESE (INIZIATE A FEBBRAIO 208) SONO STATE EFFETTUATE A ROMA, IN MAROCCO, NEGLI EMIRATI ARABI E A SAN PIETROBURGO.- CANDIDATO AL DAVID DI DONATELLO 2009 PER: MIGLIOR MUSICA, FONICO DI PRESA DIRETTA, EFFETTI SPECIALI VISIVI.- NASTRO D'ARGENTO 2009 PERLA MIGLIOR COLONNA SONORA. IL FILM ERA CANDIDATO PER IL NASTRO SPECIALE - COMMEDIA.Critica "Veronesi ha imparato bene a frullare i lasciti dell'età aurea della commedia cinematografica italiana ispirandosi un po' a Monicelli, un po' a Scola, rinverdendo il modello degli episodi concepiti come platea per gli assoli degli attori." (Paolo D'Agostini, 'la Repubblica', 23 gennaio 2009) "L'alchimia del film non è lontana da quella del cinepanettone ugualmente targato FilmAuro: comici in trasferta più sfondi esotici. Ma se nel clima natalizio vige solo la consegna di far ridere, all'ormai rituale appuntamento di febbraio l'ambizione è più alta. Già il titolo 'Italians' (ispirato dalla rubrica di Beppe Severgnini sul Corriere) suggerisce l'opportunità di ricavare un senso da queste storielle. E allora come sono gli italiani all'estero? Truffatori al pari dei due viaggiatori nel deserto, oppure tutti puttanieri come strilla inferocita la bella Xenia in faccia a Verdone? Si finisce per ammettere che prima d'ogni altra cosa sono simpatici, proprio com'era Sordi, anche quando faceva il vigliaccone, il mafioso, il primario .. Simpatico, insomma, anche se il personaggio era odioso. Lo stesso si può dire di Castellitto (qui al vertice del suo talento eclettico), ben sostenuto dal sempre più convincente Scamarcio, mentre Verdone, confermandosi fra i maestri della buffoneria nostrana, si appoggia alla Rappoport, il cui grande talento brilla anche nelle piccole cose, Giovanni Veronesi, regista oltre che sceneggiatore con Ugo Chiti e Andrea Agnello, ha fatto il suo dovere, la produzione non ha guardato a spese e il pubblico si diverte. Siamo nel cinema di consumo, se volete, ma di rispettabile qualità." (Tullio Kezich, 'Corriere della Sera', 23 gennaio 2009)"Rispetto ai film americani, i film italiani nascono da una tale inferiorità che non si applica loro lo stesso metro, quindi il voto che gli si attribuisce riflette questa diversa, disagiata realtà. Per gli odierni mezzi di Cinecittà, 'Italians' di Giovanni Veronesi è un kolossal. Ma che piccola figura fa il suo finanziarsi accatastando sfrontate, insistite pubblicità! Il cinema italiano è così: o lo stile pauperistico, detto 'due stanze e cucina', o belle riprese in esterni e all'estero, rese insopportabili dai colori da cartolina e dal vedere più marchi che altro. Peggio. Nel dilatare due storie di viaggio - uno a sud-est, l'altro a nord-est - con diversi personaggi e interpreti, l'esiguità delle idee di partenza affiora. I due episodi reggerebbero mezz'ora ciascuno; durano un'ora ciascuno. Regista e produttore non se ne sono accorti? Improbabile, ma l'avranno ritenuto un dettaglio trascurabile. Se, come prevedibile, gli incassi daranno loro ragione, 'Italians', trarrà vantaggio dalla sua debolezza. Ogni popolo ha i kolossal che merita." (Maurizio Cabona, 'Il Giornale', 23 gennaio 2009)"Imbroglioni ed erotomani, dunque questi 'Italians'? Non solo. C'è anche la simpatia, un'umanità forse un po' loffia ma piena di calore e perfino qualche imprevista resipiscenza di orgoglio nazionale: nella personificazione di uno straordinario Castellitto e di un puntualissimo Verdone, ben appoggiati da Scamarcio e Rappoport, come possiamo non amarli?" (Alessandra Levantesi, 'La Stampa', 23 gennaio 2009)"'Italians' è un film totalmente diverso da quello che avrete immaginato dal bombardamento di trailer su tutte le tv. È moderatamente comico, ha passaggi molto duri (tra cui un morto assassinato dalla mafia russa), è un melo che fingendosi qua e là una commedia tenta di veicolare un messaggio lievemente moralista: gli italiani sono dei grandi figli di ... che però, al dunque, hanno un gran cuore - soprattutto quando di mezzo c'è la famiglia. (...) La regia di Giovanni Veronesi è super-professionale e il film si vede senza fatica. Unica zeppa: la presenza degli sponsor, ormai prevaricante e stomachevole in tutti i prodotti della Filmauro." (Alberto Crespi, 'L'Unità', 23 gennaio 2009)
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Titolo Jarhead
Titolo originale Jarhead
Anno 2005
Regista Sam Mendes
Durata 123
Paese USA
Genere azione, guerra
Trama Estate 1990. Anthony Swofford, soldato ventenne proveniente da una famiglia che è nell'esercito da tre generazioni, viene mandato nel deserto dell'Arabia Saudita per combattere la prima Guerra del Golfo. Anche in questo contesto infernale, tuttavia, si sviluppano legami di solida amicizia, coraggiosa lealtà e cameratismo a tutta prova tra "jarhead" - termine gergale per "marine" - che si sono giurati fedeltà eterna. Dalla sue parole emerge un'immagine della guerra molto diversa da quella riportata sui giornali o alla televisione. Soldati rissosi e spaventati all'idea che in ogni momento possano subire un attacco nemico, giovani inesperti catapultati senza preparazione in un territorio ostile e inusuale per loro, reclute che cercano di distrarsi in ogni modo. L'attesa delle lettere da casa come solo diversivo oltre al bere. Nonostante tutto però, legami d'amicizia, lealtà e cameratismo si sviluppano tra i "jarhead" che si sono giurati fedeltà eterna.Critica "Chi ricorda l'accoglienza che fecero i giovani al film 'All'ovest niente di nuovo', arrivato in Italia dopo la Liberazione ovvero con 15 anni di ritardo dovuti alla censura fascista? La riserva che emergeva nelle discussioni dei cineclub era che romanzi e film contro la Prima guerra non erano serviti a niente in quanto non avevano impedito la Seconda. Bastò lasciar passare del tempo per cogliere l'assurdo di una simile argomentazione e ben presto infatti ridemmo di noi stessi per averla tirata fuori. Eppure di fronte a 'Jarhead' di Sam Mendes mi è tornata alla memoria proprio quella vecchia riserva forse non del tutto stolida. (...) 'Jarhead', libro e film, sono una storia di guerra senza guerra. Anche quando i marines vengono spediti a ingrossare la forza d' urto assommante a 600mila uomini sui confini del Kuwait invaso dagli iracheni, la loro partecipazione al conflitto si riduce a un'interminabile attesa. Addestrati come tiratori scelti, scalpitanti nell'ansia di sparare per uccidere, i fantaccini vengono scavalcati e messi da parte dai lanciamissili o dall'aviazione. Di una guerra tutta affidata alla tecnologia nel deserto patiscono solo la lontananza, le corna che gli fanno le malafemmine lasciate a casa, il caldo, la sete e le prepotenze che si abbattono per via gerarchica. Nel loro andare e venire per le distese sabbiose scoprono all'improvviso il quadro orrendo di una strage di uomini e macchine, corpi carbonizzati, figure umane ridotte a sculture mortuarie: una sequenza da brivido, bravo Mendes. Niente di meglio i reduci si porteranno come ricordo da una militanza senza scopo. Eppure la divisa gli resterà incollata sulla pelle: 'Noi siamo sempre nel deserto'. 'War is hell', la guerra è l'inferno: la lapidaria asserzione di William T. Sheridan generale della Civil War va aggiornata. La guerra moderna è un limbo insensato, dove non si fa altro che prepararsi a scontri che il più delle volte non avvengono. Mendes ci fa vedere in lampi fugaci quale sarà il futuro dei non-eroi quando gli ricresceranno i capelli, però nel corso del film non li abbiamo conosciuti abbastanza per prendere molta parte ai loro problemi. Di tutta questa enorme messinscena, che gira intorno alla presenza attonita e ambigua di Jake Gyllenhaal, ci resta solo la frustrazione e il disgusto. Ma Swofford che l'esperienza l'ha vissuta e raccontata, in fin dei conti la evoca con nostalgia; e Mendes, che ha tradotto esemplarmente il libro in immagini, sembra d'accordo. Che avessimo ragione quando proclamavamo che romanzi e film non avrebbero fermato le guerre del futuro?" (Tullio Kezich, 'Corriere della Sera', 17 febbraio 2006)"A cominciare dalla scena iniziale, che cita testualmente 'Full Metal Jackett', passando per 'Apocalypse Now' (il montatore è lo stesso) e altri classici del film di guerra, 'Jarhead' va all'attacco dello spettatore con un'armata di situazioni e personaggi che gli sono già noti. Anche lo schema del racconto è - almeno nella prima parte - dei più frequentati, con l'addestramento delle reclute all'odio del prossimo e l'arrivo sul teatro di guerra. Da un certo punto in poi, però, ti rendi conto che non stai vedendo un 'war movie' come gli altri. Ciò che fa la differenza, in questa trasposizione delle memorie autobiografiche di un marine, è una mancanza; la mancanza di ciò che puntella il genere, anche nelle sue varianti antimilitariste più accreditate: Mendes cancella il mito e, con esso, la catarsi che purifica lo spettatore fin delle più efferate crudeltà. Qui, invece, si rappresenta una guerra i cui 'eroi' non sparano un sol colpo: anziché col nemico, combattono con la gelosia delle ragazze lasciate in America, col deserto, con la frustrazione della noia mista alla paura. Si aggiunga una dose di humour nero, congeniale al regista (inglese) di 'American Beauty', e si vedrà un film da cui la bandiera a stelle e strisce vien fuori piuttosto a brandelli." (Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 17 febbraio 2006)"Dobbiamo provare rispetto per un film tratto dalle memorie di un vero ex-marine della prima guerra del Golfo. Ma ne proveremmo di più se il film, del libro non sappiamo, non somigliasse a un album delle figurine: utile per ricordare, come no, ma senza sconvolgersi troppo. L'addestramento col sergente carogna? Eccolo, tale e quale a 'Full Metal Jacket', citato subito per togliersi il pensiero. (...) E siccome questa è la prima generazione di combattenti post-Vietnam, ecco che il 'Jarhead' ('testa a barattolo') Jake Gyllenhaal legge addirittura Camus, perbacco, mentre gli altri guardano 'Apocalypse Now' e 'Il cacciatore', e qualcuno dubita addirittura della loro missione. Per fortuna oltre al sergente carogna c'è sempre un tenente duro ma buono e motivato, capace di ridare la carica ai ragazzi. Sarà pure tutto vero, ma suona quasi sempre predigerito. E quando arriva il momento della verità il marine che perde la testa e per poco non uccide il compagno che lo ha messo nei guai, il cecchino che rischia la corte marziale pur di sparare malgrado gli ordini il tutto risulta stranamente poco interessante. Troppo accattivante perfino per illustrare la paradossale normalità della guerra. Magari Sam Mendes ('American Beauty', 'Era mio padre') non era il regista ideale. O forse per la noia, l'orrore, la follia, ci vuole altro." (Fabio Ferzetti', 'Il Messaggero', 17 febbraio 2006)"Naturalmente non è la revisione storica l'involucro di 'Jarhead'; è la più tradizionale nevrosi del combattente, ricalcata su quella di 'Full Metal Jacket', il film di Kubrick sulla guerra del Vietnam. Ma ciò che in Vietnam era verosimile per la lunghezza dei combattimenti per truppe americane, in 'Jarhead' lascia perplessi. (...) In sostanza, dal film di Mendes esce il quadro d'una generazione - quella della fine degli anni Settanta, cresciuta nel clima contestatorio - più fragile delle precedenti. Mendes calca ancora una volta la mano poi sugli atteggiamenti gayeschi, come quando manda il protagonista Jake Gyllenhall, ad aggirarsi fra i commilitoni in uniforme coperto solo da un berretto da Babbo Natale, 'calzato' sulla prominenza del pube, ma esponendo le terga non solo al sole del deserto. Però poi lo stesso personaggio piange sull'infedeltà della fidanzata." (Maurizio Cabona, 'Il Giornale', 17 febbraio 2006)"L'assurdità della ferrea disciplina militare, l'attesa di un nemico invisibile, l'allucinato-visionario viaggio celiniano-coppoliano al termin(al)e della guerra. 'Jarhead' di Sam Mendes inizia come 'Full Metal Jacket' e procede a metà strada tra 'Il deserto dei Tartari' e 'Apocalypse Now'. Non si tratta però di virtuosistiche e pretestuose citazioni-omaggio ma di imprescindibili modelli di cinema bellico, che scandiscono e danno il senso globale dell'avventura di una pattuglia durante la Guerra del Golfo. (...) Proprio per questo, 'Jarhead' risulta tanto più pacifista di una rinuncia alla pornografia del sangue, delle carneficine, dei truculenti combattimenti per privilegiare l'erotismo dell'avventuroso viaggio di una pattuglia sperduta a base dei turbamenti di Swofford, di soldati rissosi e impolverati, di gelosie amorose e esplosioni ormonali, di commenti in prima persona. Ottima performance corale e magistrale fotografia che scolpisce il contrasto tra l'assolato deserto diurno e il paesaggio notturno squarciato dalle fiamme sputate dai pozzi petroliferi." (Alberto Castellano, 'Il Mattino', 18 febbraio 2006)
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Titolo Rambo IV, John Rambo
Titolo originale John Rambo
Anno 2008
Regista Sylvester Stallone
Durata 93
Paese GERMANIA, USA
Genere azione, drammatico
Trama Strappato dal suo esilio in un monastero buddista, Rambo deve organizzare velocemente un gruppo di giovani mercenari e partire alla volta della Burmesia. Un gruppo di religiosi cristiani sono tenuti in ostaggio e hanno bisogno del suo aiuto...Critica "Il ritorno di Rocky è stato un trionfo. Ora tocca all'altra grande icona dello Stallone anni '80: John Rambo. Tutto più difficile. Personaggio vero solo nel primo capitolo del 1982, la macchina da guerra afasica diventa ridicolo simbolo revisionista in 'Rambo 2', dove cancella da solo la disfatta in Vietnam, e retorico strumento espansionista in 'Rambo 3', dove massacra i sovietici in Afghanistan con l'aiuto dei mujaheddin sovvenzionati da Charlie Wilson. Rocky è una brava persona. Rambo un fantoccio. Che fare di lui dopo l'11 settembre? Il ridicolo era dietro l'angolo ma Stallone ha preso un'altra strada. (...) A parte i trucchi da star 60enne, in 'John Rambo' Stallone fa un ottimo lavoro. Richiamato al disordine da un gruppo di missionari parolai e ottimisti, il nostro dovrà salvarli da un gruppo di truci birmani capitanati da un pedofilo che indossa quasi sempre enormi occhiali a specchio. Grazie a Rambo e a un colorito gruppo di mercenari, i missionari salveranno la pelle ma non la fede. Sangue a fiumi, colori desaturati, impressionanti scontri a fuoco alla 'Salvate il soldato Ryan' e Rambo che urla di dolore mentre uccide tutti. C'è grande dignità in questo sofferente guerriero senza patria e speranza. Tornato a casa, lo vediamo passare davanti alla cassetta della posta dei genitori. C'è scritto R. Rambo. Ma anche se il padre si chiamasse Ronald o Reagan, ormai questo soldato non è più figlio suo." (Francesco Alò, 'Il Messaggero', 22 febbraio 2008)"Tre morti al minuto. Non stiamo parlando di Bush o degli imprenditori italiani, ma di John Rambo. Nei suoi quattro film, questa è la sua invidiabile media di nemici (ma anche presunti amici) fatti fuori in punta di fucile, mitra, pistola, machete, mani nude. Ma come il gemello buono Rocky, il reduce spesso è stato impallinato dalla critica. (...) I critici d'oltreoceano l'hanno massacrato, denunciandone la (vera) immobilità facciale, l'età, l'assenza d'ironia, la violenza gratuita. Non l'hanno mai capito: Rambo è un'icona pop. Lo capì il distributore italiano che tolse il titolo 'First Blood' (il romanzo di David Morrell a cui la saga è ispirata) dal film di Ted Kotcheff sostituendolo col pomposo nome del protagonista. I connazionali a Stallone (qui fa tutto, regia e sceneggiatura comprese, mostrando un ottimo talento nelle scene di combattimento) lo hanno sempre preso sempre troppo sul serio. 'Rambo' è un'esagerazione pacchiana, è esilarante per le frasi lapidarie come i suoi proiettili. E ogni tanto dice anche qualche verità. Un quinto capitolo è già nella testa di Sylvester. Magari dopo le elezioni: per ora, infatti, insieme all'amico Schwarzenegger, eroe come lui dell'anab-Hollywood fatta di muscoli e steroidi, deve sostenere McCain alle presidenziali. Bin Laden sta tremando.." (Boris Sollazzo, 'Liberazione', 22 febbraio 2008)"A condurre il gioco è uno Stallone abbottato e ultrasessantenne, che rispetto all'immagine originaria sembra gonfiato con gli estrogeni. Al protagonista le precedenti esperienze non hanno insegnato niente, salvo aumentare il grado del suo donchisciottismo al servizio di una vaga e silente infatuazione sentimentale, degna di un stilnovista più che di uno spietato ammazzasette." (Tullio Kezich, 'Corriere della Sera', 22 febbraio 2008)"Anche regista, Sly è un Rambo talmente convinto da convincere anche noi." (Alessandra Levantesi, 'La Stampa', 22 febbraio 2008)"Misero, caricaturale, fa quasi tenerezza." (Paolo D'Agostini, 'la Repubblica', 22 febbraio 2008)"Una violenza sconfinata, un film che gronda sangue ad ogni fotogramma. Rambo, dunque, non è cambiato, ma Stallone si è raffinato. Il film è preceduto da immagini di repertorio della guerra civile in Birmania, anch'esse violente e vere. Come a dire: questa è la violenza di cui sono capaci i militari in Birmania, quindi... lasciateci lavorare, senza fare troppo la morale." (Dario Zonta, 'L'Unità', 22 febbraio 2008)
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Titolo Johnny Mnemonic
Titolo originale Johnny Mnemonic
Anno 1995
Regista Robert Longo
Durata 98
Paese USA
Genere azione, fantascienza
Trama Il trentacinquenne Johnny è un corriere informatico: un'area del suo cervello, quella dei ricordi d'infanzia, è ora un chip per trasportare dati riservati a pagamento. Vorrebbe finalmente recuperare i suoi ricordi, ma il suo agente Ralfi lo convince, per una forte somma, ad accettare l'ultimo incarico. Si reca a Pechino dove due ex scienziati della multinazionale elvetica Pharmakon lo caricano di una overdose di informazioni, della quale dovrà liberarsi entro 24 ore. Sfuggito ad un agguato guidato dal truce Shinji su commissione della Yazuka, una organizzazione criminale, si reca a Newark, dove scopre che Ralfi lo ha tradito. Takahashi, boss locale, vuole ucciderlo e solo l'intervento della bella e battagliera Jane, samurai della strada, lo salva dalla decapitazione. Mentre Johnny tenta invano, penetrando in un laboratorio, di accedere alle informazioni per scaricarle, Takahashi incarica un pericoloso killer con manie religiose, detto il Predicatore, di catturare Johnny. Frattanto Jane sta male: ha una sindrome neuronica che sta decimando l'umanità, il "NAS". L'aiuta Spider, un ex medico che opera in un ospedale clandestino di malati terminali. E' lui il destinatario dei dati di Johnny: è la cura per il "NAS" sottratta alla Pharmakon dai due scienziati morti a Pechino. Un delfino informatico, Jones, si collega a Johnny per completare la mappa dei codici d'accesso, ma gli scherani della Yazuka e il predicatore li attaccano nel rifugio sospeso sotto un ponte, il Paradiso, dove uno strano tipo, J-Bone, guida un gruppo di ribelli alla manipolazione informatica, i Lo-Teks. La fortezza viene assalita, ma in un succedersi di lotte ed uccisioni Shinji e il killer vengono eliminati. Johnny può così scaricare con l'aiuto del delfino i dati e recuperare i ricordi d'infanzia.Note - REVISIONE MINISTERO FEBBRAIO 1996.Critica "Il neoregista Longo, pur intuendone la potenzialità, non ha saputo mettere bene a frutto l'occasione narrativa fornitagli da Gibson. Non possiede ancora la malizia, l'abilità e il talento visivo della Bigelow di Strange Days. Senza dubbio insolito, capace anche di intravedere una possibilità ormai a portata di mano (il cinema anticipa quasi sempre le cronache del futuro), Johnny Mnemonic non riesce a liberarsi da certi ritmi e modi da telefilm; ed è meno compatto, meno denso di quanto si sarebbe desiderato. Di ordinaria amministrazione anche la resa degli attori." (Avvenire, Francesco Bolzoni, 10/11/95) "Poteva essere un film epocale come "2001" e invece siamo molto al di sotto (è assente l'Assoluto), e neppure il paragone con l'inedito Strange days della Bigelow lo aiuta; se mai un precedente va cercato in Operazione diabolica di Frankenheimer. Ma il tutto è fantasioso e provocatorio. Azzerata, come accade nei fumetti, la psicologia, Keanu Reeves, chiamato banalmente John Smith, ha l'occhio sbarrato di chi tiene nel suo sofisticato impianto cerebrale, con espressiva fissità, l'ultima speranza. Cosa c'è di indelebile nella memoria dell'uomo? Forse il segreto sta nell'immaginazione, urge tornare nella video caverna platonica del mondo delle idee. A futura memoria Johnny, citando i piaceri perduti, elenca nell'ordine: una birra, un sandwich, una camicia pulita e una puttana da 10.000 dollari a notte." (Corriere della Sera, Maurizio Porro, 2/11/95)" Ambientato nell'ormai vicino scenario degradato oltre il 2000 e condito di risaputi effetti speciali, il film spreca nella sua banale confezione una bella idea. Per trasformarsi in un computer vivente, Johnny ha dovuto scaricare i ricordi infantili: sicchè, pur essendo in grado di archiviare migliaia di notizie è un infelice senza passato. Sarebbe stato bello se il film fosse riuscito a raccontare in un'epoca che rischia di non saper più distinguere fra memorizzazione e memoria, il dramma di un uomo alla ricerca del tempo perduto." (La Stampa, Alessandra Levantesi, 28/10/95) "Il film è un concentrato di contenuti mistico-elettronici, di presagi, di simbolica oggettistica cibernetica, d'affascinanti intuizioni futuribili. Lo schermo ipertesto di Robert Longo, noto artista della transavanguardia alla sua prima regia, che elabora un vertiginoso immaginario tecnologico, niente affatto pulito e lineare, indaga sul potere della comunicazione e sul "sovraccarico di informazioni che riempie l'etere di veleni"." (Il Messaggero, Fabio Bo, 2/11/95)
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Titolo Viaggio al centro della Terra 3D
Titolo originale Journey To The Center Of The Earth 3d
Anno 2008
Regista Eric Brevig
Durata 94
Paese USA
Genere avventura, azione, fantascienza, fantasy
Trama L'incredibile avventura di tre esploratori - il visionario scienziato Trevor Anderson, suo nipote Sean e la loro affascinante guida islandese Hannah - alla scoperta di un insolito regno nascosto sotto la superficie terrestre. I tre visiteranno luoghi meravigliosi e incontreranno creature fantastiche, ma il pericolo è sempre in agguato e per questo dovranno trovare rapidamente una via per tornare sulla superficie, prima che sia troppo tardi...Note - BRENDAN FRASER FIGURA ANCHE TRA I PRODUTTORI ESECUTIVI.Critica "Se lo schema del racconto con scienziato cocciuto ricalca Indiana Jones senza averne però l'umorismo (Brendan Fraser, ex 'Mummia', non è Harrison Ford), la storia è affidata a prevedibili sorprese per un pubblico ragazzo che si sintonizza sulle ansie del tredicenne. Tornano in Usa sani e salvi come cartoon, passando per Napoli permettendo così il solito imbarazzante paesaggio italian con vecchietto tra le viti che esclama 'Sacripante'. E in attesa che le tre D siano usate per nobili scopi, regrediamo con piacere in 80 minuti di divertente passatempo da montagne russe in cui sono coinvolti il rampante Josh Hutcherson e Anita Briem.". (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 16 gennaio 2009)"La 3D, in questo seguito di avventure, ha modo indubbiamente di suscitare gli effetti voluti, ma leavventure in sé, pur di tipo fantascientifico (ci sono persino i dinosauri) alla scienza preferiscono ad ogni svolta la sola fantasia accettando incongruenze, anacronismi e situazioni gratuite, una scena dopo l'altra. Con il rischio di non rispettare molto la logica e di affidare i tre personaggi quasi a un sentimento solo, la paura: non solo per le tante bestiacce che incontrano, ma anche per quell'oppressione via via sempre più catastrofica che fa pesare su di loro quel viaggio nell'ignoto, con il rischio di non trovarvi via d'uscita. Se questa stessa oppressione si trasmetterà allo spettatore, uno dei suoi scopi il film lo avrà raggiunto. Quello della stereoscopia, invece, non va oltre il giocattolo. Lo scienziato al centro è Brendan Fraser, quello della 'Mummia'. E' singolare che, come guida turistica per il suo viaggio, gli sia stato dato in uso proprio il romanzo di Verne." (Gian Luigi Rondi, 'Il Tempo', 16 gennaio 2009) "Non è un remake del film omonimo del 1959, bensì un omaggio metanarrativo in cui il capolavoro di Verne è protagonista stracitato della storia. Fraser è il miglior bambinone di Hollywood e Hutcherson l'ex bambino prodigio scoperto ai tempi di 'Innamorarsi a Manhattan'. Gran coppia. Un film per famiglie da vedere con gli occhiali 3D che ricorda ai più piccoli quanto siano belli i libri, fino al divertente finale vesuviano in cui i piranha volanti schizzano a un cm di distanza. Il cinema è anche questo, per fortuna." (Francesco Alò, 'Il Messaggero', 16 gennaio 2009)"Il film ha fascino all'inizio per la sua grazia antiquata, poi diventa un poco monotono: l'elementare Brendan Fraser, si sa, è simpatico." (Lietta Tornabuoni, 'La Stampa', 16 gennaio 2009)
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Titolo Jumper
Titolo originale Jumper
Anno 2008
Regista Doug Liman
Durata 90
Paese USA
Genere avventura, drammatico, fantascienza, thriller
Trama Il giovane David Rice scopre di avere uno straordinario potere. A causa di un'anomalia genetica, infatti, il ragazzo ha la facoltà di infrangere le barriere spazio/temporali teletrasportandosi in luoghi diversi. La sua nuova condizione gli permetterà di vedere luoghi a lui sconosciuti e incontrare nuovi amici, ma allo stesso tempo si troverà a combattere una guerra in atto da secoli con un gruppo di atavici nemici che hanno giurato di distruggere tutte le persone che hanno lo stesso potere di David...Critica "Il sogno fantascientifico-turistico reso thriller non produce effetti perché la fattura è fiacca, il dialogo inesistente, gli attori bellini ma da spot, le traiettorie narrative son banali e la sosta a Roma, come sempre, è il peggio. La velocità del pensiero non aiuta il divertimento che s'esaurisce in fretta e non sfrutta la trovata da effetti speciali. Alla base ci sono ben tre volumi e si teme quindi una trilogia che appassionerà forse i giocatori di videogame, dato che il fantasy vorrebbe mixare di tutto e di più, da 'Matrix' agli 'X Men'". (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 29 febbraio 2008)"Fortuna che nel film dell'adrenalinico Doug Liman (quello di 'The Bourne Identity') ci sia chi gli ricordi che ogni azione ha delle conseguenze. Così il personaggio dell'agente dei Paladini , sterminatore dei Saltatori, non è poi così negativo come lo si vuole far apparire." (Pedro Armocida, 'Il Giornale', 14 marzo 2008)
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Titolo Juno
Titolo originale Juno
Anno 2007
Regista Jason Reitman
Durata 92
Paese USA
Genere commedia, drammatico
Trama L'adolescente Juno MacGuff è rimasta incinta del suo amico e compagno di scuola Paulie Bleeker. Supportata dai suoi comprensivi genitori e dalla sua amica del cuore, Juno prende in considerazione la possibilità di donare il nascituro a Vanessa e Mark Loring, una coppia che non può avere figli. I mesi di gravidanza segneranno il cammino di Juno e Paulie verso l'età adulta e nel frattempo faranno emergere delle crepe nell'apparentemente idilliaco matrimonio di Vanessa e Mark.Note - MARCO AURELIO - CAMERA DI COMMERCIO INDUSTRIA ARTIGIANATO AGRICOLTURA DI ROMA COME MIGLIOR FILM ALLA II^ EDIZIONE DI 'CINEMA. FESTA INTERNAZIONALE DI ROMA' (2007).- CANDIDATO AL GOLDEN GLOBE 2008 PER: MIGLIOR FILM COMMEDIA/MUSICALE, ATTRICE PROTAGONISTA E SCENEGGIATURA.- OSCAR 2008 A DIABLO CODY COME MIGLIORE SCENEGGIATURA ORIGINALE. IL FILM ERA STATO CANDIDATO ANCHE PER MIGLIOR FILM, REGIA E ATTRICE PROTAGONISTA.- CANDIDATO AL NASTRO D'ARGENTO 2008 COME MIGLIOR FILM EXTRAEUROPEO.Critica "Le due ragazze vengono dagli Usa e sono Diablo Cody e Ellen Page, rispettivamente sceneggiatrice e protagonista di 'Juno', il delizioso film di Jason Reitman. Giovanissima, ex-spogliarellista, titolare di un blog molto frequentato sul web (dove l'ha scoperta un produttore con le antenne lunghe), Diablo Cody meriterebbe un discorso a parte. Diciamo solo che ha fornito alla straordinaria Ellen Page un personaggio che non si dimentica: una 15enne piena di fantasia ma del tutto priva di inibizioni che in 90 minuti ci mostra come vivono, amano, pensano, parlano, dubitano, decidono le ragazze di oggi. Unendo il massimo del candore al colmo della spregiudicatezza con la faccia tosta della loro età." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 27 ottobre 2007)"Anche la tecnica delle sitcom - meno le risate registrate - arriva in chiusura della Festa di Roma col film 'Juno', prodotto da John Malkovich, diretto da Jason Reitman (figlio di Ivan, il regista canadese di 'Ghostbuster'), ma soprattutto scritto dalla trentenne Diablo Cody, ex spogliarellista ed ex telefonista porno: lei ha ideato il personaggio di 'Juno', che avrà successo fra gli adolescenti adusi ai programmi di Mtv. (...) La vicenda è un pretesto per dare modo a Juno di sfoggiare un acre, ma fresco e malizioso senso dell'umorismo, che però è così disinvolto da dire più l'età attuale dell'autrice che dell'età adolescenziale dell'autobiografico personaggio." (Maurizio Cabona, 'Il Giornale', 27 ottobre 2007)"Il figlio d'arte Reitman (papà è il regista dei 'Ghostbuster'), già notato per 'Tank you for smoking', dirige una commedia scritta come una serie di strisce a fumetti intorno a un tema centrale. Dove non solo la ragazzina, ma tutti i personaggi sono in grado di pronunciare battute che basterebbero per due o tre film." (Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 27 ottobre 2007)"Dirige il regista di ''Thank You for Smoking'. Ma il merito va tutto a Diablo Cody, che prima faceva la spogliarellista e ora scrive dialoghi strepitosi. Non provateci a casa, però. Sono cose che in Italia non riescono." (Maria Rosa Mancuso, 'Il Foglio', 27 ottobre 2007)"Il film non è un capolavoro ma possiede quel sapiente equilibrio tra briosità e problematicità che sono perfetti per conquistare il gusto della giuria, oltre ad un'invidiabile fluidità narrativa. Diretto da Jason Reitman (il figlio del regista di 'Ghostbusters', che aveva già dimostrato di saperci fare con 'Thank You for Smoking') e scritto da Diablo Cody, 'Juno' mescola la spregiudicatezza verbale dell'adolescente con una molto meno spregiudicata descrizione delle sue disavventure da futura mamma. Se è apprezzabile la leggerezza con cui la regia ci racconta i momenti cruciali di una ragazzina che non ne vuole sapere di diventare mamma, è decisamente semplicistico il modo in cui è descritto un mondo dove praticamente non esistono tensioni e ogni problema si può risolvere con una battuta o una gag. Forse troppo anche per quello spirito da 'Sundance Institute' che oggi va per la maggiore tra le nuove generazioni di cinefili e che qui domina incontrastato. Eppure è indubbio che il film di Reitman junior abbia incontestabili qualità, dalla capacità di scegliere volti simpaticamente appropriati all'intelligenza di chiudere il film con un compromesso accettabile tra mentalità conservatrice e spregiudicatezza giovanilista. In mezzo non mancano divertenti annotazioni sui gusti delle generazioni più giovani, disposte a rimettere in discussione l'ammirazione per Dario Argento quando viene loro mostrato un film del maestro dello slasher Herschell Gordon Lewis, ma irremovibili nel difendere Iggy Pop e il rock degli anni 70 di fronte al puro rumore che fanno i Sonic Youth." (Paolo Mereghetti, 'Corriere della Sera', 27 ottobre 2007)
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Titolo Just Friends - Solo amici
Titolo originale Just Friends
Anno 2005
Regista Roger Kumble
Durata 94
Paese USA, CANADA, GERMANIA
Genere commedia, romantico
Trama Ai tempi del college, Chris Brander e Jamie Paladino erano grandi amici. In realtà lui, piuttosto imbranato e paffuto, ne era segretamente innamorato, e lei, la cheerleader più carina e amata della scuola, gli voleva bene come a un fratello. Dieci anni dopo, Chris è diventato un produttore musicale di successo, attraente e inguaribile seduttore. Tornato nella sua città natale con Samantha James, una sua nuova scoperta, Chris incontra la sua amica del cuore e l'antica passione non tarda a riaccendersi.Critica "Truccato come un inquietante mostro con la bocca cucita in 'Wolverine', Ryan Reynolds torna a demistificare il suo corpo da sex symbol in 'Just Friends' di Roger Kumble (già regista di 'Cruel Intentions', 'La cosa più dolce', 'In viaggio per il college') dove si diverte a essere un giovane obeso (o incredibilmente "corpulento" per citare Antonio Rezza) che passati gli anni, e persi i chili, torna nella cittadina natale magro come un grissino, pronto per prendersi qualche rivincita. E forse conquistare la ragazza del cuore di cui prima poteva essere solo amico. Che l'attuale marito di Scarlett Johansson sia un bravo attore lo sappiamo dai tempi di 'Maial College' (2002). Il problema è che spesso sceglie male i film, come nel caso di questa commedia buzzurra brutta copia di 'Tutti pazzi per Mary' uscita in Usa ben quattro anni fa. Siamo alle solite: la stagione cinematografica volge al termine ed arrivano i fondi di magazzino." (Francesco Alò, 'Il Messaggero', 15 maggio 2009)
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Titolo Kill Bill - Volume 2
Titolo originale Kill Bill - Vol. 2
Anno 2004
Regista Quentin Tarantino
Durata 136
Paese USA
Genere azione
Trama Dopo essersi vendicata di O-Ren Ishii e Vernita Green, la Sposa ha ancora due ex compagni sulla sua 'Lista' da incontrare, Elle Driver e Budd, prima di raggiungere il suo scopo: uccidere Bill.Note - PRESENTATO FUORI CONCORSO AL 57MO FESTIVAL DI CANNES (2004).- CHIA HUI LIU E' ACCREDITATO COME GORDON LIU.- CONSULENTE ARTI MARZIALI: YUEN WO-PING.Critica "In Usa il capitolo conclusivo di 'Kill Bill' è stato accolto trionfalmente dal pubblico come un classico e un capolavoro. Esagerazioni? Autore dalle molteplici ascendenze orientali e italiane (omaggi nel rullo di coda a Leone, Fulci e Corbucci, citazioni musicali da Morricone e altri nostrani), Tarantino si conferma comunque un maestro della suspense, un campionissimo della bizzarria ineffabile e uno spregiudicato praticante della 'mossa del cavallo'. E c'è da scommettere che l'intero 'Kill Bill uno e due' (durata complessiva 247 minuti) resterà in dvd un punto di riferimento del cinema postmoderno." (Tullio Kezich, 'Corriere della Sera', 24 aprile 2004)"Ok, la recensione segue. Ma non si può pretendere che un compitino critico surroghi il talento prepotente di cui Quentin Tarantino fa smisurato sfoggio in 'Kill Bill Volume 2'. Per una volta, a essere sinceri, non ci appassiona convincere nessuno: c'è un modo d'intendere il cinema e sottintendere la vita che germoglia in ogni inquadratura fino ai memorabili titoli di coda e addirittura deflagra nell'invenzione della scenografia e nell'espressione dei personaggi di fronte al quale le acque di platea non possono che dividersi come il Mar Rosso. (...) Poliziesco e western, kung fu e disegno animato (e Hitchcock, Leone, il melodramma anni Cinquanta...) diventano linguaggi simbolici universali, alla portata sia degli spettatori sia dei protagonisti; ogni sorta di frasi prosaiche e poetiche, di incubi psicanalitici e societari, di metafore ossessive e miti personali incarnano la babele del quotidiano che si contrappone all'eloquenza della trascinante colonna sonora; i vestiti, i look e gli accessori risultano tanto accurati e aureolati da prefigurare le mode - caso unico nel cinema globalizzato - anziché scimmiottarle." (Valerio Caprara, 'Il Mattino', 24 aprile 2004) "Alla fine aveva ragione Tarantino. Se ha frazionato 'Kill Bill' in due volumi è perché ha usato stili diversi per le due parti: la prima, realizzata sotto il segno dei film orientali di spada e arti marziali, l'altra come omaggio dichiarato al western all'italiana. (...) Rispetto al volume 1, i dialoghi tra i personaggi di infittiscono, la regia dilata i tempi, prevalgono i primi piani mentre la colonna sonora diffonde le musiche di Ennio Morricone e Luis Bacalov. Alla stilizzazione del cinema orientale si sostituisce un'altra stilizzazione, quella dell'iperrealismo. Le diverse scelte formali, però, non significano affatto assenza di uno stile personale; al contrario, il regista è più che mai fedele a se stesso. Lo è nell'uso della cultura pop, con relativa ironia: vedi l'episodio in cui Elle intrattiene la sua vittima, avvelenata, descrivendo le caratteristiche del micidiale serpente Balck Mamba, o quello dove Bill disquisisce dottamente sulle differenze tra Superman e Spider Man. Lo è nell'uso sadico-ironico del 'gore': e qui pensiamo alla scena dell'occhio strappato dall'orbita. Ma soprattutto, lo è perché pensa ogni situazione in termini di cinema." (Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 24 aprile 2004)"Un capolavoro furente, a pugni chiusi. Letteralmente, come testimonia la scena in cui la sposa esce dalla bara, dov'è sepolta viva, grazie alla tecnica kung fu, che unisce meditazione e forza fisica in una miracolosa geometria di dolore, apprendistato violento ed estasi zen. Quentin Tarantino, in questo volume 2, così diverso per intensità e purezza dalla 'stupideria' citazionista del volume 1, dà lezioni di contropiedi (...) Feticista soprattutto del cinema, strattonato della passione viscerale per la serie B e il kung fu e quella per il razionalismo godardiano, Tarantino nel dittico 'Kill Bill' ci rivela più che mai la sua anima divisa in due. Disperatamente." (Piera Detassis, 'Panorama', 6 maggio 2004)
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Titolo Kill Bill - Volume 1
Titolo originale Kill Bill: Vol. 1
Anno 2003
Regista Quentin Tarantino
Durata 118
Paese USA
Genere azione
Trama "La sposa" una volta faceva parte del un gruppo elitario di killer noto come la Deadly Viper Assasination Squad (DiVAS) . Bill, il capo della banda, decide di eliminarla durante il suo matrimonio e le tende un imboscata. Unica superstite del bagno di sangue che ne segue, si risveglia dal coma dopo quattro anni e va alla ricerca della sua vendetta...Note - LA REVISIONE MINISTERIALE DELL'8 FEBBARIO 2005 HA TOLTO IL DIVIETO AI MINORI DI 14 ANNI.Critica "Sarebbe facile liquidare questa frastornante fantasmagoria, che celebra sopra le righe l'unione dello spaghetti western con il kung fu, come l'opera di un pazzo. E sarebbe altrettanto facile schierarsi sul fronte dei cinefili, che prevediamo in estasi di fronte a una simile monumentalizzazione del cinema di serie B. Cerchiamo di tenerci in mezzo, considerando l'impasto fra la componente esibizionistico - patologica e il travolgente talento visivo. Ciò che salva 'Kill Bill' da restare un irritante museo degli orrori è l'iperbole grottesca, che contiene sempre una punta di umorismo. (...) In tanto delirio da teatro della crudeltà, dove i morti ammazzati sono più numerosi che in un dramma elisabettiano, scopriamo quindi un'autentica nota dolente, la condanna di chi provoca sofferenze all' infanzia. E visto il numero di minorenni vittime di atrocità pubbliche e private nel mondo in cui viviamo, si avverte che l'allarme di Tarantino, pur privo di connotazioni moralistiche, è straziato e sincero. Ma la risposta è atrocemente anticristiana: in questo contesto infame non c'è posto per il perdono, chi subisce un'offesa può solo pensare a vendicarsi. Altra connotazione: se un film come 'Kill Bill' si fa accettare per virtù di stile, i suoi protagonisti maledetti in parte si riscattano rispettando un paradossale codice d'onore". (Tullio Kezich, 'Corriere della Sera', 4 ottobre 2003)"Con una trama così in uno dei mille b-movies asiatici o italiani (horror, polizieschi, spaghetti western) omaggiati, nobilitati, re-mixati da Tarantino, ci sarebbero 80 minuti di noia e 10 di delirio, forse di estasi. 'Kill Bill - Volume I' invece offre 100 minuti di puro e insensato piacere, un piacere così vuoto che bestemmiando potremmo dire Zen, più 10 di titoli. Il gioco è dichiarato: si tratta di eliminare ogni traccia di profondità. Gli unici sentimenti del film sono lo strazio della sposa al risveglio, lo sgomento di fronte a quel corpo che sulle prime non risponde, la sete di vendetta. Il resto, almeno in questa prima parte, è Cinema. Fontane di sangue, coreografie strepitose, ironia iperpulp (88 rivali battuti nella scena clou, e 'Chi è vivo vada pure, ma lasci qui gli arti che ha perso: ora sono miei'). L'occhio giubila, l'orecchio freme, la mente sonnecchia come un gatto che fa le fusa. Regressivo? Altro che! Ma non ci sentiremo in colpa per questo." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 24 ottobre 2003)"Come ne 'La sposa in nero' di Truffaut, l'inizio del quarto film di Tarantino è segnato dalla maniacale sete di vendetta della protagonista. Un inizio folgorante, che nel prosieguo mostra i limiti di questo genio senza talento. Tarantino cerca di non deludere i fan, realizzando il film di un regista che non sapeva che film realizzare, 'Kill Bill' ha così la sfacciataggine di presentarsi in due puntate e il doppio incasso viene spacciato per esigenza narrativa. Un insaccato di tutti i generi che l'autore predilige: arti marziali, spaghetti western, manga giapponese e naturalmente pulp, la sua ossessione d'autore. (...) Nulla piace di più di ciò che piace ed in nome di questo sciocco teorema si riuniranno le falangi degli estimatori di Tarantino." (Adriano De Carlo, 'Il Giornale', 24 ottobre 2003) "Contaminando western, mélo, kung fu, samurai, noir, horror, l'autore del geniale 'Pulp Fiction' torna con un film automaticamente cult che celebra il pop. Al di là della seducente prepotenza visiva, del grottesco, del sangue (80 cadaveri alla volta), dell'abilità tecnico-amorale (la mamma uccisa di fronte alla bambina) San Quentin dei cinefili sembra però aver perso le sue qualità migliori: in 'Kill Bill: vol. 1' manca ironia, latitano i dialoghi e il gioco a lui così congeniale del montaggio dei tempi incrociati è solo un ricordo. Si può godere per 10 minuti dei piedi di Uma e si attende il secondo tempo: dividere un film di tre ore in due è, commercialmente, una follia." (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 25 ottobre 2003) "Che cosa ci si poteva aspettare da Tarantino se non un oggetto filmico molto pop, molto splatter, postmoderno, post-tutto, con mutilazioni, corpi in frammenti, sangue a fiotti? A descriverlo così, magari riconoscendone contemporaneamente i virtuosismi di linguaggio, sembra il film-manifesto della società delle merci, tutto spettacolo niente contenuti: il videogame in questione, appunto. Invece è esattamente l'opposto. Là dove il videogame è, per definizione, il più calcolato e ripetitivo degli oggetti visivi, Quentin introduce la dismisura come criterio stesso della rappresentazione. Il che non vuol dire solo la Sposa solitaria che massacra quaranta ladroni armati di sciabola: significa sproporzione premeditata delle parti, con episodi corti alternati a episodi lunghi, ripetizioni, anticipazioni, apertura di pause liriche da citare nelle future storie del cinema. Non basta. A scavare ancora in po' sotto la superficie, vedi che Tarantino riscopre (a suo modo) perfino i valori: il rispetto per l'infanzia, la lealtà, la fiducia in se stessi - perché no? - la vendetta. (Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 24 ottobre 2003)"Potremmo chiudere comunicandovi la noia mortale che il film ci ha trasmesso a furia di schizzi di sangue, ma siamo coscienti che Tarantino è un regista importante e che 'Kill Bill' ha aspetti che meritano un'analisi meno frettolosa. Dopo la profusione di storie plurime e incrociate di 'Pulp Fiction', e lo stupendo classicismo di 'Jackie Brown', Tarantino deve aver inseguito un'idea originale per anni. Non trovandola, ha deciso di costruire un film con 10, 100, 1000 idee copiate. Infatti non c'è nulla, dicasi NULLA di nuovo in 'Kill Bill', tutto è strizzata d´occhio cinefila, anche le parti più meditative sui samurai prese di peso da 'Ghost Dog' di Jarmusch o dai film di Kurosawa. Nulla di male: è il trionfo del citazionismo, l´epitome del postmoderno, e del resto il giovane Quentin aveva sostanzialmente pantografato un film hongkonghese di Ringo Lam nella sua opera prima, 'Le iene'. Così, in Kill Bill ha messo tutti i suoi amori: lo spaghetti-western, i film di kung-fu e di arti marziali, i manga giapponesi, i film sugli yakuza e sui samurai. I problemi, a questo punto, diventano due. Il primo: a livello di trama e di dialoghi, era lecito aspettarsi qualche guizzo in più; il film è invece inerte, ripetitivo, a tratti sembra una parodia di 'Charlie´s Angels' (!). Il secondo, più di stile: tutti i generi che Tarantino omaggia erano sporchi, gloriosamente e gioiosamente tirati via; 'Kill Bill' è invece leccato, iper-rifinito, sembra una versione "nobilitante" del cinema popolare. Arte pop al massimo grado, in cui una volta tanto il regista Tarantino prevale sullo sceneggiatore; solo che lo sceneggiatore sapeva essere un grande scrittore, mentre il regista è solo un riciclatore che da piccolo ha visto troppi film e oggi vorrebbe farceli rivedere tutti insieme." (Alberto Crespi, 'l'Unità', 24 ottobre 2003)"La materia narrativa del quarto film di Quentin Tarantino è volutamente primordiale: causa-effetto, tradimento-vendetta. Il resto è periferico, marginale, come i caratteri delle maschere coinvolte, più mitologici che reali. Il flop di quel capolavoro umanista che è 'Jackie Brown' ha pesato inevitabilmente sul tanto atteso 'Kill Bill', che qualche scellerato ha voluto spaccare a metà. Cosi i personaggi sono tornati a due dimensioni come quelli dei fumetti, possibilmente manga. Ma il talento enorme e imprevedibile di Quentin ha saputo fare di necessità virtù e il suo film è diventato come una natura morta da avanguardia pittorica, una ricerca dell'elementarità del racconto che ha valore soltanto nel suo farsi cinema." (Mauro Gervasini, 'Film Tv', 28 ottobre 2003)
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Titolo King Arthur
Titolo originale King Arthur
Anno 2004
Regista Antoine Fuqua
Durata 130
Paese USA, IRLANDA
Genere avventura, azione, drammatico
Trama Ispirato a un personaggio storico, il film esamina i personaggi del mito in un periodo più ristretto rispetto alla tradizione. Il leggendario re Artù protagonista di gesta epiche ha un nome: Lucius Artorius Castus, un uomo che sente in sé molto vivo il lato romano, ma che ad un certo punto della sua vita si interroga sulla sua identità e sulle sue radici e fa scelte coraggiose che cambieranno il suo destino e quello di un popolo. Il film si concentra sulla dicotomia tra bene e male, sull'ergersi di una persona sola contro la malvagità del mondo. A Castus si affiancano altri uomini, Lancillotto, Gawain, Galahad, Bors, Tristan e Dagonet, quelli che il mito consacrerà come suoi "cavalieri". Devono tornare a Roma perché l'Impero Romano sta arretrando i suoi confini ma prima risalgono verso nord per soccorrere IL nobile romano Marius e la sua famiglia. Subito dopo, Arthur assieme ai suoi uomini, a Ginevra e ad altre donne e bambini britanni, si dirige a sud, verso il Vallo di Adriano, la linea di demarcazione dell'Impero Romano. Lì si svolgerà la battaglia di Badon Hill, l'evento storico muterà le sorti della Britannia dando i natali a una leggenda sopravvissuta per generazioni. Lì si deciderà il destino di un popolo, lì Arthur e i suoi si scontreranno con i Sassoni.Critica "Ennesimo oltraggio hollywoodiano alla romanità, 'King Arthur' di Antoine Fuqua è concepito per i protestanti, così dovrebbe offendere i cattolici, come gli irlandesi, che invece - almeno formalmente - figurano produttori. (...) Solo Ivano Marescotti è bravo come vescovo romano e cattolico, dunque perfido. Per il resto si copia a tutta forza, con culmine nella scena del lago ghiacciato che inghiotte i Sassoni, anziché i Cavalieri teutonici, come nell''Aleksandr Nevskij' di Eisentestein." (Maurizio Cabona, 'Il Giornale', 1 ottobre 2004)"Edizione straordinaria! Comprate 'King Arthur' di Antoine Fuqua e scoprirete che Re Artù (Clive Owen) è un soldato romano nell'Inghilterra del V secolo D.C. Nome: Lucius Artorius Castus. Missione: difendere la colonia dagli indigeni Woad e dai crudeli Sassoni. (...) 'King Arthur' è stato un giusto flop. Troppo ingessato per essere puro intrattenimento, troppo grossolano per essere preso sul serio. E anche troppo simile a 'Il gladiatore' (stesso sceneggiatore). Ma lì c'era Russell Crowe, qui Clive Owen. Sosia di Michele Cucuzza e meno espressivo del cavallo che monta. Ridateci 'Excalibur' please." (Francesco Alò, 'Il Messaggero', 1 ottobre 2004)"In un dilagare di musiche pseudo-celtiche, la compagnia combatte, senza vero afflato epico, un numero esagerato di battaglie, inclusa una sul ghiaccio che (se si evitano i paragoni con 'Aleksandr Nevskij') è di gran lunga la migliore della collezione. Assai meno riuscite le pause di dialogo, cameratesco o ideologico, a causa della congenita povertà di carisma dei principali ruoli maschili. Con un riguardo tutto particolare per Lancillotto, di cui lo schermo non ci aveva mai rifilato una versione tanto sbiadita. Un film non destinato a entrare nella leggenda." (Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 1 ottobre 2004)"Girato in Irlanda con un accurato e sontuoso allestimento di scene e costumi, il film si riallaccia con efficacia attraverso un montaggio emozionante alla lunga tradizione delle cinebattaglie all'arma bianca. Si rivedono con poche varianti lo scontro degli eserciti sul lago ghiacciato di 'Alexander Nevski' di Ejzenstejn e i nugoli di frecce dell''Enrico V' di Olivier. Mancano i divi che avrebbero dato un maggiore prestigio all'operazione, ma gli interpreti riuniti intorno all'aitante Clive Owen, in gran parte di provenienza teatrale, risultano accettabili e in taluni casi (Stellan Skarsgård come capo dei Sassoni) eccellenti. Qualche perplessità può suscitare Keira Knightley, che fa di Ginevra una Walkiria più scatenata e pericolosa dei guerrieri che la circondano." (Tullio Kezich, 'Corriere della Sera', 2 ottobre 2004) "Il nervoso Antoine Fuqua scegli la storia (vera?) e butta via la leggenda bretone: la tavola è rotonda, ma non ci sono tornei; Merlino non fa magie e la bella Ginevra, che picchia come un'assassina, non bacia l'ardente Lancillotto. Le varianti non sono state perdonate e King Arthur è stato molto stroncato. Ma al di là di qulache confusione il racconto è rude, piacevolmente sporco e vendicativo." (Claudio Carabba, Io donna, )
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Titolo King Kong
Titolo originale King Kong
Anno 2005
Regista Peter Jackson
Durata 180
Paese NUOVA ZELANDA, USA
Genere avventura, fantasy
Trama Il regista indipendente Carl Denham ha in progetto di girare un documentario sulla sconosciuta Skull Island, al largo di Sumatra, e organizza una spedizione di cui fanno parte anche l'attrice di vaudeville Ann Darrow e il drammaturgo Jack Driscoll. La troupe viene imbarcata sulla nave 'Venture', comandata dal capitano Englehorn, che parte alla volta dell'isola. Giunti a destinazione, Denham e gli altri si imbattono in una serie di insidie e pericoli: tribù selvagge, animali preistorici e soprattutto un gigantesco gorilla, King Kong, che fraternizza con la bella Ann. L'affetto per la donna sarà nefasto per Kong, che, catturato e portato a New York per essere esibito come fenomeno da baraccone, andrà incontro ad un tragico destino...Note - REMAKE DELL'OMONIMO FILM DIRETTO NEL 1933 DA MERIAN C. COOPER.- IL COMPOSITORE JAMES NEWTON HOWARD HA SOSTITUITO HOWARD SHORE, CHE HA LASCIATO LA PRODUZIONE PER DIVERGENZE STILISTICHE CON PETER JACKSON.- ANDY SERKIS, L'ATTORE CHE HA MIMATO KING KONG, AVEVA SUL VISO 132 SENSORI PER RIPRODURRE LE SUE ESPRESSIONI FACCIALI SUL MUSO DEL GORILLA.- 2 NOMINATION AI GOLDEN GLOBE 2006 A PETER JACKSON (MIGLIOR REGIA) E A JAMES NEWTON HOWARD (MIGLIOR MUSICA).- OSCAR 2006: MIGLIOR SUONO (CHRISTOPHER BOYES, MICHAEL SEMANICK, MICHAEL HEDGES, HAMMOND PEEK), MIGLIOR MONTAGGIO SONORO (MIKE HOPKINS, ETHAN VAN DER RYN), MIGLIORI EFFETTI SPECIALI. ALTRE NOMINATIONS: MIGLIOR SCENOGRAFIA.Critica "Il genio neozelandese di Peter Jackson salta a piè pari il remake del '76 voluto da Dino De Laurentiis per il debutto di Jessica Lange, e con qualche variazione restituisce la fiaba dello scimmione preistorico e dell'attricetta alla sua origine. Con una forte componente di citazione cinefila (il clima della Depressione in cui agiva la gente di cinema e di spettacolo) e, nella prima metà delle tre ore di pellicola, introducendo una felice allusione al Conradiano 'Cuore di tenebra' ma anche alla rilettura che ne ha fatto Coppola in 'Apocalypse Now': Kruz-Brando-Kong. Poi la fantasmagoria di effetti non speciali ma specialissimi prende il sopravvento. Veramente da capogiro la sequenza dell'inseguimento dei dinosauri. Ma diventa fiera, catalogo, esposizione, campionario dilatato a discapito delle belle intuizioni, del romanticismo straziante e dell'ossessione di conoscenza che il regista-mago aveva saputo cogliere riflettendosi nel ruolo del regista del film nel film e quindi anche nei panni del capostipite Cooper, a discapito della forza del racconto." (Paolo D'Agostini, 'la Repubblica', 16 dicembre 2005)"Jackson trova per gran parte del suo progetto l'ispirazione giusta collocando il kolossal in un mirabile contesto d'epoca e sviscerandone, appunto, la chiave doppiamente mitica e favolistica in termini storici e nostalgici. Un'opzione che rende fluido e avvincente il prologo, ambientato tra le folle newyorkesi flagellate dalla Grande Depressione e nevroticamente sorrette dall'eco del jazz e del lusso nel duro cammino verso la sopravvivenza; che indirizza credibilmente verso il cargo 'Venture' l'acrobata di vaudeville Anne, il febbrile regista Carl e l'idealista scrittore Jack; che raccorda abilmente i sogni d'avventura del mozzo, il cinismo del capitano e la disillusa perizia dei suoi secondi al catartico romanzo conradiano 'Cuore di tenebra' (e naturalmente alla reinvenzione coppoliana di 'Apocalypse Now'). Il nuovo 'King Kong' appare, così, divertente e appassionante per come sbozza i caratteri, esaspera i contrappunti, gioca con le prospettive fino a ricavarne veri e propri affreschi a tutto schermo tempestosi e gotici. Il gorilla che s'invaghisce della fanciulla e lotta per lei contro i mostri preistorici e le orrende creature che infestano l'Isola del Teschio è, in questo senso, antico e moderno, espressione della ferinità indomabile della natura e portatore di un bagliore di nuda e straziante verità nella proterva conquista del futuro operata dagli uomini. Peccato che tutto il movimento finale scada assurdamente, annullando l'aura erotica del prototipo e distruggendo l'ambiguità del connubio: stavolta non è la Bella che estenua la Bestia, ma la porca società che mitraglia la più banale e appagata delle love story." (Valerio Caprara, 'Il Mattino, 17 dicembre 2005)"Il regista neozelandese Peter Jackson non risparmia precisazioni per collocare la favola nel contesto d'epoca: lavorando mirabilmente di computer su vecchie foto, fa emergere nel prologo un suggestivo quadro della Depressione per le vie di New York. Le folle in movimento, il traffico già intenso delle macchine, le luminose a Times Square, gli hobos, le minestre della Salvation Army, folate di jazz, numeri di vaudeville. (...) La spedizione di salvataggio incappa in mostri di ogni sorta con un'insistenza controproducente. Per frenare l'esuberanza del regista, qualcuno avrebbe dovuto ricordargli che dalla copia del '32 fu tagliato un attacco di ragni giganti perché "toglievano a Kong il primato della terribilità". Altrettanto pleonastiche sono le vicende dei personaggi minori. Dal momento in cui la Bestia stordita dal cloroformio finisce in catene, la Bella dimenticando i rischi corsi diventa la sua sfegatata paladina in un trasporto che banalizza l'erotismo di Fay Wray nel film originale. Tutta la sequenza di New York, con Kong che fugge dal palcoscenico, gli sconquassi nella metropoli, il ricongiungimento con la bionda ispiratrice al suono di musiche soavi e la scalata al grattacielo fanno scadere la faccenda a livelli risibili. Dopo il finale abbraccio consolatorio in vetta all'Empire fra Brody e Watts, gli spettatori di questo film monumentale e stupidissimo sfollano rassicurati dalla prospettiva che l'eroe sposerà la vedova Kong." (Tullio Kezich, 'Corriere della Sera', 17 dicembre 2005) "Sono 80 le variazioni sul mito dello scimmione in amore, una fu proposta anche a Fellini. Dal film del '33 a questo, ci sono 199.328.000 dollari di differenza. Si vedono. Così è diversa l' ingenuità nella love story tra King, romantico come Mina, e la biondina nella New York depressa magnificamente ricostruita (stile digitale ma caldo) dal Signore Jackson degli anelli. Film spettacolo di tre ore con momenti intensi e belli, in tre capitoli: il primo conradiano, di mare verso il cuore di tenebra; il secondo da Lévi-Strauss ma con troppi selvaggi e mostri preistorici (fuga e lotta divertenti); poi il ritorno a casa e finale sull'Empire. Dentro al remake ci sono forse gli incubi di oggi e un bravo attore, Jack Black, che mima Orson Welles. Scene cult: Naomi Watts che si esibisce, come un provino, per il bestione; e i due che pattinano al Central Park come Astaire-Charisse in Spettacolo di varietà." (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 7 gennaio 2006)
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Titolo Kingdom, The
Titolo originale Kingdom, The
Anno 2007
Regista Peter Berg
Durata 110
Paese USA
Genere drammatico, thriller
Trama Ronald Fleury, agente speciale dell'FBI, viene mandato in missione speciale in Medio Oriente. Insieme ad una squadra composta dall'elite dell'agenzia investigativa, deve recarsi per una settimana a Riyadh, infiltrarsi tra le fila della Jihad e catturare uno dei capi del terrorismo islamico. Tuttavia, la squadra si trova impreparata ad affrontare le reali condizioni sociali e politiche cui deve far fronte ma, con l'aiuto di un capitano della polizia saudita, Fleury e i suoi cercheranno di salvare se stessi e la tranquillità internazionale in una disperata lotta contro il tempo.Critica "Cronaca, realtà e quel po' di fantasy che non guasta per una storia che ha un suo posto nell'attualità terroristica delle nuove crociate politico-petrolifere- religiose, con una sceneggiatura non banale dell'emergente Matthew Michael Carnahan. (...) Il dilemma è sempre cercar di capire e introdursi in un'altra cultura, ammesso che si faccia a tempo, mentre la squadra giunge alla porta del killer. Non tutto politically correct e intriso di quel sentimentalismo da 'arrivederci alla prossima, se sopravviveremo' il film condivide l'idea che è oggi impossibile far giustizia. Un cast di star impegnate: Foxx, il bravo Chris Cooper, Bateman, l'intrusa Jennifer Garner." (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 30 novembre 2007)"Con 'Nella Valle di Elah', arriva dagli Usa anche 'The Kingdom'. Come dire: animo ragazzi, a Hollywood non siamo tutti disfattisti, in Medio Oriente è dura ma ce la faremo, tanto i più forti siamo sempre noi ... Difficile concepire messaggi più pericolosi, visti i tempi, ma è quanto fa questo filmaccione. Che prima finge di ricostruire la tela di rapporti che unisce americani e sauditi, poi si trasforma in un forsennato sparatutto." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 30 novembre 2007)"Diretto alla brava da Peter Berg, 'The Kingdom' inizia come un documentario e culmina come un tradizionalissimo film d'azione. L'ultima mezz'ora, con Jennifer che torna a essere la 'superwoman' della serie Tv '24', toglie un po' di plausibilità, però il tutto resta valido per l'incalzare degli eventi, la verosimiglianza dell'ambientazione e la qualità degli interpreti. Soprattutto colpisce la stoica amarezza della conclusione, che non prevede soluzioni a un conflitto giocato su una logica di odio reciproco." (Alessandra Levantesi, 'La Stampa', 30 novembre 2007)"'The Kingdom', diretto da Peter Berg, prodotto da Michael Mann, è un'americanata con musiche e riprese da (s)ballo. In cui però scopriamo che buoni e cattivi fanno e dicono le stesse cose. Possono combattere insieme, essere amici o uccidersi mossi da rabbia, vendetta e ideali identici, anche se hanno colori e divinità diverse. Tutti convinti di avere ragione, tutti lottano per la libertà. E tutti, questa guerra sporca fatta di certezze, la perdono." (Boris Sollazzo, 'Liberazione', 30 novembre 2007)"Prodotto dall'ottimo Michael Man, 'The Kingdoom' osa penetrare nelle regioni del terrorismo islamico, per realizzare un 'action movie' che sposa lo stile concitato e ipercinetico delle più recenti serie poliziesche tv con le convenzioni formali del film politicamente impegnato, alla 'Syriana'. Qui, a onor del vero, l'intenzione si limita a un intrattenimento spettacolare: però la macchina da presa 'a spalla' e il tipo d'inquadratura mirano a suggerire un realismo di stampo documentaristico. La qualità della regia, in ogni caso, supera abbondantemente il prodotto di confezione. Peter Berg, soprattutto, è bravissimo a giocare di contrappunto con il 'campo' e il 'fuoricampo', rendendo palpabile il senso del pericolo incombente su Jamie Foxx e i suoi." (Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 30 novembre 2007)
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Titolo Il cacciatore di aquiloni
Titolo originale Kite Runner, The
Anno 2007
Regista Marc Forster
Durata 131
Paese USA
Genere drammatico
Trama E' un piacevole assolato pomeriggio a Kabul e i piccoli Amir, figlio di un notabile pashtun, ed Hassan, il suo piccolo servitore azara, stanno partecipando ad una gara di aquiloni. Tuttavia, il risultato della gara e un atto di vigliaccheria segneranno la rottura dell'amicizia fraterna tra i due bambini. Venti anni dopo, Amir, che si è trasferito negli Stati Uniti, torna nel suo paese ormai governato dai Talebani per combattere i fantasmi del passato e ristabilire la giustizia.Note - TRA I PRODUTTORI ESECUTIVI FIGURA ANCHE SAM MENDES.- CANDIDATO AL GOLDEN GLOBE 2008 COME MIGLIOR FILM STRANIERO E PER LA MIGLIOR COLONNA SONORA.Critica "Di saldo e severo impegno la sceneggiatura. Fedele al testo, ma con intelligenza, ne espone le tappe salienti con felice essenzialità, badando soprattutto ad esprimerne più il senso e i climi che non lo schema libresco. Con un finale, forse più ottimistico di come l'autore letterario lo avesse visto, ma comunque con accenti di un lirismo asciutto che finiscono persino per commuovere. Pur evitando il patetismo." (Gian Luigi Rondi, 'Il Tempo', 28 marzo 2008)"'Il cacciatore di aquiloni' dell'eclettico Marc Forster, tratto dal best seller di Khald Hosseini, è un adattamento molto corretto, abitato da facce giuste e sapientemente montato tra passato e presente. In alcuni momenti restituisce l'immane potenza della storia cartacea. In altri (la banalizzazione del papà di Amir) i tanti fan del romanzo storceranno il naso. Forse erano necessarie tre ore. Comunque un'opera che vola alto senza cadere mai." (Francesco Alò, 'Il Messaggero', 28 marzo 2008)"Diretto da Marc Forster in spirito di fedeltà al bestseller di Khaled Hosseini, il film rievoca con sensibilità i giorni (quasi) spensierati di un'amicizia infantile traumaticamente spezzata. E se l'avventuroso rientro in patria, che riscatta Amir adulto delle colpe passate, non è altrettanto convincente, restano forti la bella immagine paterna incarnata da Homayoun Ershadi: e lo svolazzare libero e colorato degli aquiloni in gara sui tetti di una suggestiva Kabul, com'era prima dell'invasione sovietica, dell'avvento dei talebani e dell'attuale caos." (Alessandra Levantesi, 'La Stampa', 28 marzo 2008)"Poco convincente nelle vicissitudini rocambolesche dell'ultimo quarto d'ora, questa diligente trascrizione letteraria di Marc Foster (un regista che ai tempi di 'Monster's Ball' sembrava avviato a migliori destini) avrebbe guadagnato da un uso più parsimonioso della musica invadente di Alberto Iglesias." (Tullio Kezich, 'Corriere della Sera', 28 marzo 2008)"Poco cambia che sia parlato in lingua dari (perduta, del resto, nel doppiaggio italiano), o che i bambini della prima metà paiono usciti dal nostro neorealismo; americana è la sceneggiatura dell'eclettico David Benioff; americana l'impaginazione del non meno multiforme regista Marc Forster che si limita a illustrare le situazioni del romanzo senza cercare un'impronta personale." (Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 28 marzo 2008)"Il regista Marc Forster (autore di 'Monster's Ball') mette in scena questa storia come se a mirarla fossero gli spettatori di quaranta anni fa. Bisognerebbe recuperare quell'ingenuità e curiosità perdute per apprezzare questo lavoro, che suona eccessivamente retorico e affettato. Un prodotto hollywoodiano, per certi versi, con molte incrinature etniche, però uno sguardo tutto sommato limpido che non ha paura di far recitare gli attori e non-attori in lingua Dari. La parte che più colpisce è quella ambientata nell'era dei talebani, con tanto di lapidazione pubblica di una donna adultera." (Dario Zonta, 'L'Unità', 28 marzo 2008)"Buoni sentimenti per un cinema sentimentale, che chiede solo di soddisfare le aspettative dei fan del romanzo. Va bene così, anche se nella seconda parte qualcosa suona a vuoto, quando la buona confezione non basta più a mostrare davvero l'orrore del fanatismo religioso e Forster non trova lo scatto in più per salvarsi dal teatrino dei buoni e dei cattivi." (Piera Detassis, 'Panorama', 3 aprile 2008)
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Titolo Kung Fu Panda
Titolo originale Kung Fu Panda
Anno 2008
Regista Mark Osborne
Durata 92
Paese USA
Genere animazione
Trama Po, un panda grassoccio con la passione per il Kung fu, secondo un'antica profezia sarebbe il prescelto 'Guerriero del Dragone' che grazie alla nobile arte marziale sconfiggerà il crudele Tai Lung. Con l'aiuto delle 5 Furie - Tigre, Gru, Scimmia, Vipera e Mantide - guidati dal sommo Shifu, l'intrepido Po si trasformerà da cameriere ciccione e scansafatiche in un abile e temibile Maestro Shaolin.Note - VOCI DELLA VERSIONE ORIGNALE: JACK BLACK (PO), JACKIE CHAN (MASTER MONKEY), DUSTIN HOFFMAN (SHIFU), LUCY LIU (MASTER VIPER), IAN MCSHANE (TAI LUNG), ANGELINA JOLIE (TIGRESSA), SETH ROGEN (MASTER MANTIS), MICHAEL CLARKE DUNCAN (COMANDANTE VACHIR), DAVID CROSS (MASTER CRANE), DAN FOGLER (ZENG), JAMES HONG (MR. PING), RANDALL DUK KIM (OOGWAY).- NELLA VERSIONE ITALIANA LA VOCE DI PO E' DI FABIO VOLO.- FUORI CONCORSO AL 61. FESTIVAL DI CANNES (2008).- CANDIDATO AL GOLDEN GLOBE 2009 COME MIGLIOR FILM D'ANIMAZIONE.- CANDIDATO ALL'OSCAR 2009 COME MIGLIOR FILM D'ANIMAZIONE.Critica "'Kung Fu Panda', diretto da John Stevenson (sceneggiatore dei due 'Shrek' e di 'Madagascar') e Mark Osborne, fa il verso ai film del filone esotico tipo 'La tigre e il dragone' di Ang Lee, tutto un ruotare in aria banale di corpi e canne di bambù, un po' fuori tempo per avvincere pargoli e genitori. E se Shrek vampirizzava la mitologia disneyana, il Panda fa il parassita nell'iconografia cinese a base di pupazzi scolpiti al computer, e questa volta ruba in casa il personaggio di 'Guerre Stellari', Yoda, il piccoletto orecchiuto dalla grande saggezza." (Mariuccia Ciotta, 'Il Manifesto', 15 maggio 2008)"'Kung Fu Panda' è una gioia per gli occhi e, come i veri film di arti marziali, una fiaba morale non banale, con un panda ciccione che supera le proprie debolezze e diventa un eroe." (Alberto Crespi, 'L'Unità', 16 maggio 2008)"A passo di carica sulla linea in 3D beatificata da 'Shrek', i registi John Stevenson e Mark Osborne inventano ancora un animale antropomorfico che è impossibile non amare: un panda ciccione e sognatore immerso nelle suggestioni della Cina ancestrale e destinato - suo malgrado - a salvare la Valle della Pace dalle grinfie di un mostruoso campione di arti marziali dalle sembianze di un leopardo. All'uscita italiana si perderanno le voci originali, ma i bamboccioni d'ogni età applaudiranno lo stesso entusiasti." (Valerio Caprara, 'Il Mattino', 16 maggio 2008)"Il Festival è da tempo sensibile ai cartoni animati. Ha lanciato i tre 'Shrek' e Steven Spielberg, con la Dreamworks, se ne è ricordato quando, da una costola di 'Shrek', ha ideato un panda goffo, dall'alito letale,e gli ha costruito attorno il magnifico 'Kung Fu Panda' di John Stevenson e Mark Osborne." (Maurizio Cabona, 'Il Giornale', 16 maggio 2008)
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Titolo Nemico pubblico n. 1 - L'ora della fuga (parte 2)
Titolo originale L'ennemi Public N° 1
Anno 2008
Regista Jean-François Richet
Durata 130
Paese FRANCIA, CANADA
Genere biografico, drammatico, thriller
Trama Tornato in Francia dopo anni di esilio in Canada, Mesrine si allea con un killer soprannominato 'La Portaerei' ed insieme mettono in atto una serie di rapine a mano armata. Finito nuovamente in prigione, Mesrine fa amicizia con l'astuto François ed insieme studiano con successo un piano per evadere. Il suo gesto lo renderà celebre tanto da imprimere le sue gesta in un'autobiografia. L'incontro con la nuova compagna Sylvia e la simpatia di alcuni estremisti politici di sinistra daranno poi un'ulteriore svolta alla sua esistenza. Ma la polizia francese e alcuni suoi vecchi 'amici' hanno ancora dei conti in sospeso con lui...Critica "Come nel 'Che', anche lo stile di regia cambia, sintonizzandosi sulla paranoia del protagonista. Grande confronto tra Cassell e Gourmet nella parte del commissario Broussand, il solo nemico alla sua altezza perché simile a lui in molte cose." (Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 17 aprile 2009)"Tutto sempre spettacolare, appassionante, perfino divertente, come no, con qualche salto nel puro orrore (come il giornalista-spia che lo attacca su Minute, foglio scandalistico di estrema destra, e viene rapito e pestato a morte, lasciando pure delle foto a testimoniare il massacro). Ma senza mai un dubbio (l'esecuzione finale andò proprio così?) o una sfumatura, e sempre lasciando l'epoca sullo sfondo (in tv si parla del rapimento Moro) per tenere in primo piano quel megalomane così cinegenico, con tutta la sua violenza. Un affresco troppo brillante, ben congegnato e ben girato, anche se senza originalità, per non sedurre. Ma a tratti davvero un po' facile - e ambiguo - per convincere davvero." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 17 aprile 2009) "I1 film è solido, ben fatto, una catena di azioni violente affannose, eppure non molto interessante. Vincent Cassel è al suo meglio: l'arroganza, la volgarità, l'indifferenza verso il destino altrui, la vocazione a sedurre, la ridicola spavalderia del bandito e il suo coraggio fisico sono recitati molto bene, senza rendere simpatico Mesrine salvo che al momento dell'uccisione." (Lietta Tornabuoni, 'La Stampa', 17 aprile 2009)"Da questa filmografìa doppia viene fuori un Mesrine che somiglia più a un personaggio di celluloide che ad un uomo in carne ed ossa. E invece, come spesso succede, e qui come non mai, la realtà batte la finzione per ko. Quello che resta è un gran bel film, con la magnifica grana d'altri tempi (gli anni Settanta si respirano in sala a pieni polmoni). E un Cassel tanto grande da raggiungere le vette del cinema di Duvivier e Gabin." (Roberta Ronconi, 'Liberazione', 17 aprile 2009)
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Titolo Nemico pubblico n. 1 - L'istinto di morte (parte 1)
Titolo originale L'instinct De Mort
Anno 2008
Regista Jean-François Richet
Durata 110
Paese FRANCIA, ITALIA, CANADA
Genere biografico, drammatico, thriller
Trama La gioventù e l'ascesa di uno dei più efferati criminali francesi, Jacques Mesrine, un uomo assetato di potere e in cerca di denaro facile. Da soldato ribelle dell'esercito francese di stanza in Algeria, Mesrine si è ben presto trasformato in uno spietato criminale che, insieme alla sua compagna Jeanne Schneider, si è macchiato di terribili atti criminosi da Parigi a Montreal.Critica "La scelta del romanzesco, anziché della ricostruzione a pretese 'documentarie', è coerente con un personaggio manipolativo e megalomane, che mise in scena la propria vita proprio come uno spettacolo. Bel cast, ma il ruolo di Cassel si 'mangia' tutti gli altri." (Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 13 marzo 2009)"Un biopic noir e avvincente sul simbolo ribelle del contropotere francese, l'uomo che tuttora abita nelle parole dei rapper o sulle magliette degli adolescenti delle banlieues, quel Jacques Mesrine che ha romanzato se stesso in vita, sulle pagine di un libro (l'autobiografia 'L'instinct de mort') e in ogni suo atto pubblico e privato, e che è valso al protagonista Vincent Cassel un Cèsar meritatissimo. Jean François Richet dirige questo carnevale nero di morte, machismo e goliardica ferocia (ma anche viceversa), avendo per le mani una storia classica che contemporaneamente si allontana e si sposa con la sua rabbiosa e un po' manichea critica sociale dal basso - si pensi al remake 'Assalto Distretto 13' ma soprattutto a 'Ma 6-t va crack-er - è on Abdel Raouf Dafri, sceneggiatore che come lui ha mangiato polvere nelle periferie fin da piccolo, ha raccontato un eroe, un uomo d'onore, un fanfarone e un debole dal carisma straordinario. Vincent Cassel mette il suo fascino ibrido al servizio di un personaggio scomodo, violento e affascinante. Ci entriamo dentro, lo troviamo a tratti simpatico ma non ne facciamo mai un idolo. (...) In queste pagine, pardon scene, ci sono Gabin e Delon, c'è il meglio del polàr scritto e proiettato, c'è tradizione ma anche una gustosa rivisitazione laica, sotto il profilo politico, cinematografico e anche biografico. Mesrine appare nelle sue sfumature, sia pur tagliato con l'accetta com'era, la Francia ci è restituita fuori dalle cartoline turistico-politiche. Il resto è un grande Cassel che mostra tutto il suo talento nel divertire e divertirsi in un ruolo tanto sopra le righe. Per gli amanti del genere una pacchia, per gli altri un tuffo in tutto quello che ci siamo persi in questi anni addormentati, in cui la ribellione e i nemici pubblici si sono dissolti inesorabilmente.." (Boris Sollazzo, 'Liberazione', 13 marzo 2009)"La scelta del romanzesco, anziché della ricostruzione a pretese 'documentarie', è coerente con un personaggio manipolativo e megalomane, che mise in scena la propria vita proprio come uno spettacolo. Bel cast, ma il ruolo di Cassel si 'mangia' tutti gli altri." (Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 13 marzo 2009)"Jean François Richet rinuncia all'energia del suo cinema precedente (il remake di 'Distretto 13' di Carpenter) in favore di una gelida cura del dettaglio negli arredi: sembra uno antico serial tricolore stinto, invece è un noioso film francese spento. Sembra possano spuntare Rita Pavone o Gianni Nazzaro da sotto un tappeto, invece c'è l'ennesimo eccelso Vincent Cassel sprecato. Scenacce e musichette. Realismo tarocco che stride surreale. Roba da malafiction: schermo a spicchi e continua... il 17 aprile. Noi non ci saremo." (Alessio Guzzano, 'City', 13 marzo 2009)"Un biopic noir e avvincente sul simbolo ribelle del contropotere francese, l'uomo che tuttora abita nelle parole dei rapper o sulle magliette degli adolescenti delle banlieues, quel Jacques Mesrine che ha romanzato se stesso in vita, sulle pagine di un libro (l'autobiografia 'L'instinct de mort') e in ogni suo atto pubblico e privato, e che è valso al protagonista Vincent Cassel un Cèsar meritatissimo. Jean François Richet dirige questo carnevale nero di morte, machismo e goliardica ferocia (ma anche viceversa), avendo per le mani una storia classica che contemporaneamente si allontana e si sposa con la sua rabbiosa e un po' manichea critica sociale dal basso - si pensi al remake 'Assalto Distretto 13' ma soprattutto a 'Ma 6-t va crack-er - è on Abdel Raouf Dafri, sceneggiatore che come lui ha mangiato polvere nelle periferie fin da piccolo, ha raccontato un eroe, un uomo d'onore, un fanfarone e un debole dal carisma straordinario. Vincent Cassel mette il suo fascino ibrido al servizio di un personaggio scomodo, violento e affascinante. Ci entriamo dentro, lo troviamo a tratti simpatico ma non ne facciamo mai un idolo. (...) In queste pagine, pardon scene, ci sono Gabin e Delon, c'è il meglio del polàr scritto e proiettato, c'è tradizione ma anche una gustosa rivisitazione laica, sotto il profilo politico, cinematografico e anche biografico. Mesrine appare nelle sue sfumature, sia pur tagliato con l'accetta com'era, la Francia ci è restituita fuori dalle cartoline turistico-politiche. Il resto è un grande Cassel che mostra tutto il suo talento nel divertire e divertirsi in un ruolo tanto sopra le righe. Per gli amanti del genere una pacchia, per gli altri un tuffo in tutto quello che ci siamo persi in questi anni addormentati, in cui la ribellione e i nemici pubblici si sono dissolti inesorabilmente.." (Boris Sollazzo, 'Liberazione', 13 marzo 2009)"Prima puntata della nera biografia di un noto malvivente, Jacques Mesrine, il Vallanzasca francese, freddato dalla polizia nel '79 dopo una vita criminosa e spesso collusa con la politica. (...) Ed è solo la prima parte d'un film di genere, meno di Melville più di Verneuil, tratto dall'autobiografia di Mesrine cui Vincent Cassel offre una adesione psicosomatica straordinaria." (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 13 marzo 2009)
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Titolo L.A. Confidential
Titolo originale L.A. Confidential
Anno 1997
Regista Curtis Hanson
Durata 137
Paese USA
Genere poliziesco
Trama A Los Angeles, agli inizi degli anni Cinquanta, domina una grande voglia di muoversi, divertirsi, fare affari, anche in relazione al progressivo affermarsi del nuovo mezzo televisivo. Tre poliziotti, l'ambizioso Ed Exley, il simpatico Jack Vincennes, l'ingenuo Bud White, cercano in modi diversi di fare carriera e di ottenere un successo personale. Jack organizza arresti spettacolari di personaggi del mondo dello spettacolo per conto di Sid, editore di una rivista senza scrupoli. Ed, poliziotto incorruttibile che crede che chi sbaglia debba pagare, denuncia gli eccessi di violenza di alcuni colleghi durante la notte di Natale, ottenendo una promozione. Bud, si trova di fronte alla morte del suo collega appena mandato in prepensionamento e inizia una serrata indagine che alla fine fa luce sulle trame criminali che legano i malviventi alle forze dell'ordine. A fare da tramite, c'è anche Lynn, una ragazza che assomiglia a Veronica Lake e che appartiene ad una scuderia di sosia di attrici diretta dal magnate Pierce. Il cerchio si stringe e Bud ed Ed si trovano di fronte a una terribile verità...Note - REVISIONE MINISTERO OTTOBRE 1997.- OSCAR 1997 PER LA MIGLIOR SCENEGGIATURA NON ORIGINALE E PER LA MIGLIORE ATTRICE NON PROTAGONISTA (KIM BASINGER).Critica "'L.A. Confidential' di Curtis Hanson è un film proprio come quelli che si vedono abitualmente al cinema: e in un festival fa la figura del cane in chiesa. Tratto da un romanzo di James Ellroy, ambientato nei primi anni Cinquanta, il copione tiene dietro a troppe situazioni e non brilla per chiarezza". (Tullio Kezich, 'Corriere della Sera', 15 maggio 1997)"Il mondo di 'L.A. Confidential' è quello di James Ellroy: duro, nero, sanguinolento, corrotto. Ma nel film di Curtis Hanson le storie e il linguaggio duro e debordante di Ellroy sono tradotte in una messinscena scattante ed energica, che calca il pedale dell'ironia e della citazione e perde il sentimento di disperazione e follia tipico del mondo dello scrittore. E se per un attimo si può avere l'impressione che il film cresca tanto da assomigliare a Chinatown, la speranza dura poco. 'L.A. Confidential' è un brillante film di genere, con una bella ricostruzione d'epoca di Jeannine Oppewall, una splendida fotografia di Dante Spinotti, e una notevole squadra di attori in cui, accanto alle star Kim Basinger, Kevin Spacey e Danny De Vito, sono protagonisti due efficaci attori australiani, Russell Crowe e Guy Pearce: poliziotto violento il primo, incorruttibile il secondo. Niente di nuovo, poche emozioni, ma tutto ben impacchettato, e con qualche risata cinefila come ciliegina". (Irene Bignardi, 'la Repubblica', 15 maggio 1997)
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Titolo La vita è bella
Titolo originale La vita è bella
Anno 1997
Regista Roberto Benigni
Durata 110
Paese ITALIA
Genere drammatico
Trama Verso la fine degli anni Trenta in Toscana, due giovanottelli lasciano la campagna per trasferirsi in città. Guido, il più vivace, vuole aprire una libreria nel centro storico, l'altro Ferruccio fa il tappezziere ma si diletta a scrivere versi comici e irriverenti. In attesa di realizzare le loro speranze, il primo trova lavoro come cameriere al Grand Hotel, e il secondo si arrangia come commesso in un negozio di stoffe. Camminando, Guido si innamora di una maestrina, Dora, e, per conquistarla inventa l'impossibile. Le appare continuamente davanti, si traveste da ispettore di scuola, la rapisce con la Balilla. Ma Dora si deve sposare con un vecchio compagno di scuola, e tuttavia non è soddisfatta perché vede molto cambiato il carattere dell'uomo. Quando al Grand Hotel viene annunciato il matrimonio, Guido irrompe nella sala in groppa ad una puledro e porta via Dora. Si sposano ed hanno un bambino, Giosuè. Arrivano le leggi razziali, arriva la guerra. Guido, di religione ebraica, viene deportato insieme al figlioletto. Dora va da un'altra parte. Nel campo di concentramento, per tenere il figlio al riparo dai crimini che vengono perpetrati, Guido fa credere che loro fanno parte di un gioco a punti, in cui bisogna superare delle prove per vincere. Così va avanti, fino al giorno in cui Guido viene allontanato ed eliminato. Ma la guerra nel frattempo è finita, Giosuè esce, incontra la madre e le va incontro contento, dicendo "abbiamo vinto".Note - REVISIONE MINISTERO DICEMBRE 1997.- TRE OSCAR 1999: MIGLIOR FILM STRANIERO, MIGLIORE COLONNA SONORA DRAMMATICA, MIGLIORE ATTORE PROTAGONISTA (ROBERTO BENIGNI). - 8 PREMI DAVID 1998: MIGLIOR FILM, MIGLIORE ATTORE (ROBERTO BENIGNI) MIGLIORE SCENEGGIATURA (CERAMI-BENIGNI), MIGLIORE REGISTA (ROBERTO BENIGNI), MIGLIORE PRODUTTORE (GIANLUIGI BRASCHI ED ELDA FERRI), MIGLIORE FOTOGRAFIA (TONINO DELLI COLLI), MIGLIORE COSTUMISTA E MIGLIORE SCENOGRAFO (DANILO DONATI), PREMIO DAVID SCUOLA.Critica "La novità di 'La vita è bella' è l'esplosione di un talento recitativo che finora non si era palesato in tutto il suo fulgore. È vero che il copione scritto con Vincenzo Cerami ardisce e non ordisce, nel senso che sbilancia alla maniera dell'ultimo Chaplin la farsa verso il cinema di idee; ed è vero che Benigni regista rivela un'inedita autorevolezza anche nell'avvalersi degli apporti sapienti (per citare solo tre nomi) di Danilo Donati, scenografo, Tonino Delli Colli, operatore e Nicola Piovani, musicista. Il tentativo, invero, acrobatico, è di coniugare il frù frù di Lubitsch che percorre la prima parte (magari con l'occhio al grottesco antinazista 'Vogliamo vivere') con la spoglia eloquenza di Rossellini nella raffigurazione del lager: ma cuciti insieme dal filo rosso di una follia tutta benignesca, magari corroborata dall'attraversamento dell'universo di Fellini (...).Peccato che l'impaginazione del film, lodevolmente asciutta, sacrifichi un po' i personaggi minori. Tuttavia ciò che tiene insieme "La vita è bella", lo giustifica e ne esalta la qualità poetica è la presenza scoppiettante e ispirata del protagonista: romanticamente buffo nei colloqui con la "principessa" Nicoletta Braschi al suono della 'Barcarola' di Hoffmann, paternamente protettivo nel duetto con il piccolo Giorgio Cantarini. Nel quale trova finalmente un senso l'ormai vetusto slogan sessantottino L'immaginazione al potere". (Tullio Kezich, 'Corriere della Sera', 19 dicembre 1997)"La vita è bella, quinto film e mezzo del nostro Charlot Benigni in veste di regista, non è un 'bel' film. Ma è un film - appassionato, divertente, commovente, sincero - con una qualità rara nel cinema di oggi: ha un'anima. E ha un'idea fortissima che porta avanti di slancio e nobilmente la sua storia qualche volta stiracchiata e ansimante: la vita è fantasia, per sopravvivere ci vogliono fantasia e amore (...). Il nostro Charlot di Vergaio aspira forse a fare troppo. Ma ha fatto tantissimo. Sulla scorta della sceneggiatura scritta con il suo abituale e abilissimo complice Vincenzo Cerami ha costruito un personaggio e un apologo che sarà difficile dimenticare: la maschera tragicomica di un giusto alle prese con l'indicibile orrore dell'olocausto che si ribella, appunto, non dicendolo, non riconoscendolo, non dandogli l'importanza attribuitagli dal persecutore". (Irene Bignardi, 'la Repubblica', 18 dicembre 1997)"Benigni vince la scommessa del tragicomico, con una sceneggiatura elaboratissima e sottile, con un lungo incipit disseminato di segnali fastidiosi e inquietanti, con la sua recitazione sempre un po' straniata, sperduta, sorpresa (ma che altra reazione può avere uno, davanti alla sola idea del massacro di una razza?), e con quella del bambino, che sta sempre in bilico tra la paura e l'eccitazione del gioco, tra la fiducia nel babbo (che ostinatamente ride) e la sensazione che, invece, qualcosa non funzioni. E, in almeno due scene, piega alla tragedia la sua genialità monologante: la finta, disperata traduzione dal tedesco, all'arrivo nel campo, quando trasforma le regole della sopravvivenza in quelle del gioco, e, prima, nella scuola, l'illustrazione del manifesto della razza ariana, per la quale prende a prestito particolari anatomici della propria, inarrivabile bellezza. Un film che lascia il segno". (Emanuela Martini, 'Film Tv', 1 gennaio 1998)
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Titolo La terrazza sul lago
Titolo originale Lakeview Terrace
Anno 2008
Regista Neil LaBute
Durata 110
Paese USA
Genere drammatico, thriller
Trama Chris e Lisa Mattson, giovane coppia rampante e progressista, si sono appena trasferiti in California. La loro casa da sogno si trova accanto a quella di un ufficiale di polizia di Los Angeles, Abel Turner, un severo padre single che si è autonominato 'sceriffo di quartiere'. I due giovani diventano subito oggetto di persecuzione del loro vicino di casa, che disapprova il loro matrimonio interrazziale. Con l'intenzione di liberare il vicinato da qualsiasi cosa o persona da lui ritenuta "indesiderabile", Turner diventa sempre più fastidioso nei confronti dei Mattson, fino a provocare una serie crescente di danneggiamenti ed insulti. Quando la coppia decide di reagire, queste continue intrusioni nella loro vita, alla fine, diventano nefaste.Critica "Provocatore di professione, di una certa raffinatezza, ma di risultati discontinui, LaBute punta anche qui sul ribaltamento delle aspettative, sulla animosa reattività razzista e conservatrice di un nero, su un colpo di scena finale e su qualche momento di suspense. Ma che dire, il ribaltamento è talmente sottolineato da non stupire e, anzi, diventare manieristico e dimostrativo? L'energia psicologica che spinge ad azioni aggressive ha sempre qualcosa di formale, a volte involontariamente risibile." (Silvio Danese, 'Quotidiano Nazionale', 01 novembre 2008)
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Titolo IL QUINTO ELEMENTO
Titolo originale Le Cinquieme Element
Anno 1997
Regista Luc Besson
Durata 101
Paese FRANCIA
Genere fantasy
Trama Per secoli i sacerdoti egizi istruiti dagli alieni Mondoshawan hanno custodito il segreto dell'unica arma chiamata "il quinto elemento" in grado di opporsi alle minacce di distruzione del pianeta. Ora, nel 2259, il Male Supremo, sotto forma di un misterioso e oscuro pianeta magmatico, è diretto verso la Terra e ripropone il pericolo di annientamento. Il quinto elemento ritorna sulla Terra, incarnandosi in una ragazza di nome Leeloo ricreata dagli scienziati in laboratorio. Impaurita e disorientata, Leeloo fugge e precipita nell' aereo-taxi di Korben Dallas, ex membro delle forze speciali. A Korben i capi affidano il compito di recuperare le pietre sacre dei quattro elementi primari (terra, aria, fuoco, acqua) indispensabili a Leeloo per vincere la battaglia contro il Male. Durante la missione, funestata da imprevisti e pericoli, avviene la resa dei conti con il perfido Zorg e i facinorosi Mangalore. Tornato sulla Terra con le pietre, Korben si ritrova accanto ad una esausta Leeloo. Allora capisce di doverle dichiarare il suo amore sperando che proprio questa sia la chiave per sconfiggere ancora una volta il Male.Note REVISIONE MINISTERO OTTOBRE 1997.Critica Coloratissimo fantakolossal di produzione francese, diretto dall'autore di "Nikita" e "Léon". Eccentriche citazioni (i fumetti francesi per adulti, cioè Moebius e "Métal Hurlant"; i costumi firmati da Jean-Paul Gaultier). E la presenza dell'eroe hollywoodiano dei tre "Die Hard". Nella New York del 23° secolo un taxy-driver rimane casualmente coinvolto in un intrigo apocalittico. Il "quinto elemento" è la salvezza. "Nulla da obiettare al film per quanto riguarda la scenografia spettacolare e le creature inventate da Besson assieme a due grandi disegnatori di fantascienza come Moebius e Meziéres (che aveva ispirato anche l'astronave di Guerre Stellari). Affascinante la loro Manhattan sovraffollata di macchine volanti. Belli i costumi di Jean Paul Gaultier (in particolare quelli della sovraeccitata star televisiva Chris Tucker, una volta leopardato e una volta con scollo di rose). Divertente qualche situazione (la madre rompiscatole). Efficientissimo Besson. Ma Il quinto elemento sotto il gioco e l'ironia non ha un cuore, e si esce rintronati dal rumore e con l'impressione frustrante del deja-vu." (Irene Bignardi, 'La Repubblica', 8 maggio 1997)
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Titolo Lo scafandro e la farfalla
Titolo originale Le Scaphandre Et Le Papillon
Anno 2007
Regista Julian Schnabel
Durata 112
Paese FRANCIA, USA
Genere biografico, drammatico
Trama Nel 1995, a soli 43 anni, l'ex-caporedattore di Elle France, Jean-Dominique Bauby, a seguito di un ictus rimane completamente paralizzato. L'unica parte del corpo che è in grado di muovere è la palpebra dell'occhio sinistro. Impossibilitato a comunicare in altro modo, Bauby, attraverso l'uso della palpebra, è riuscito a dettare lettera per lettera l'intero romanzo in cui ha raccontato il suo mondo interiore, una sorta di diario del suo viaggio nell'immobilità, pubblicato poco dopo la sua morte, avvenuta nel marzo del 1997.Note - PREMIO PER LA MIGLIOR REGIA AL 60MO FESTIVAL DI CANNES (2007).- GOLDEN GLOBE 2008 PER MIGLIOR REGIA. ERA STATO CANDIDATO ANCHE PER: MIGLIOR SCENEGGIATURA E FILM STRANIERO.- CANDIDATO ALL'OSCAR 2008 PER: MIGLIOR REGIA, SCENEGGIATURA NON ORIGINALE, FOTOGRAFIA E MONTAGGIO.- CANDIDATO AL DAVID DI DONATELLO 2008 COME MIGLIOR FILM DELL'UNIONE EUROPEA.- CANDIDATO AL NASTRO D'ARGENTO 2008 COME MIGLIOR FILM EUROPEO.Critica "Si pensa a 'Mare dentro' naturalmente, ma Schnabel segue una pista diversa da Amenabar e fa dell'avventura di Bauby un viaggio autoanalitico fra immaginazione e memoria. Con qualche caduta nel gusto facile o prevedibile, compensata dalla prova degli attori (in testa Bauby/Mathieu Amalric, con la sua vivacità e simpatia), dalla qualità del copione di Ronald Harwood, complice dell'ultimo Polanski. E dalle immagini con cui Schnabel racconta la solitudine di Bauby, il suo humour, la sua disperazione, i suoi rapporti con i medici e con le fisioterapiste (tutte belle e devote, naturalmente), con il padre (un gigionissimo Max Von Sydow), con i figli, con l'ex-moglie Emmanuelle Seigner, col prete che vuole mandarlo a Lourdes (Jean-Pierre Cassel alla sua ultima apparizione). Uscendone abbastanza bene, anche se con un soggetto simile il ricatto emotivo è sempre in agguato." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 23 maggio 2007)"L'artista e cineasta Julian Schnabel ha tratto 'Le scaphandre et le papillon', un film che rientra tra i candidati alla Palma d'oro per la sua atroce forza emotiva e il suo richiamo a un'indomita speranza umanistica. (...) Schnabel, però, indeciso tra il commosso rispetto e le esigenze dello spettacolo, indulge a troppi preziosismi finto-sperimentali che penalizzano l'esilio interiore e le derive mentali dello sventurato protagonista." (Valerio Caprara, 'Il Mattino', 23 maggio 2007)"Il soggetto sembra uscito da una vecchia rubrica di Selezione: 'Una persona che non dimenticherò mai'. Ma Schnabel riesce ad artigliarti nel profondo. Da 'Lo scafandro' gli spettatori, anche i normodotati, escono con le lacrime agli occhi. Perché l'occhio buono di Bauby è la spia dilaniata, ma spietata, di tutte le inadeguatezze, le ipocrisie dei normali nei confronti del malato." (Giorgio Carbone, 'Libero', 23 maggio 2007)"La peculiarità del film di Schnabel è quella di viaggiare su un doppio binario: da una parte descrive con precisione documentaristica la condizione vissuta dal protagonista, dall'altra da voce alla sua dimensione interiore, determinato a sfuggire dallo 'scafandro' della paralisi, liberando le 'farfalle' della sua immaginazione e dei suoi sogni. Notevole la fotografia di Janusz Kaminsky, collaboratore più che decennale di Spielberg." (Giacomo Visco Comandini, 'Il Riformista', 23 maggio 2007)"Mathieu Amalric, nella parte della ciglia danzante dà una delle sue più intense e atletiche interpretazioni, mentre l'artista e regista Julian Schnabel, ci mette tutta la sua perfida conoscenza degli ambienti intellettuali à la page per descriversi come un 'vincente' cieco di spirito, mai malato in vita sua, che si automaschera perché è l'unico gioco divertente da fare in certe situazioni. Facendo del punto di vista di Amalric, e del battito di ciglia, anche la metafora del cinema, non proprio profonda, come morte al lavoro della retina." (Roberto Silvestri, 'Il Manifesto', 23 maggio 2007)"Julian Schnabel, il regista, è un newyorchese apprezzato nel mondo soprattutto per i suoi quadri. E' un artista a tutto tondo che ha esordito nel cinema con un film 'a tema', la biografia del pittore Jean Michel Basquiat; successivamente ha diretto 'Before Night Falls', in concorso a Venezia 2000. Il raffinatissimo gusto visivo sul quale ha costruito 'Lo scafandro e la farfalla' era, per così dire, scontato: per nulla scontato, invece, che Schnabel padroneggiasse così bene la materia narrativa e che azzeccasse tutti gli strumenti cinematografici per raccontarla: a cominciare dal battito di ciglia che diventa oltre che il modo di comunicare di Bauby, anche il battito ritmico del montaggio, la ragione di vita del film stesso." (Alberto Crespi, 'L'Unità', 23 maggio 2007)"Tra il presente di tortura fisica e psicologica nei rapporti con l'esterno, tra il ricordo del passato, tra i fantasmi della realtà, dell'immaginazione e della memoria, Schnabel firma un melò toccante che non disdegna l'ironia in un impianto stilistico che cerca la poeticità e i sentimenti. Un'opera che, come spesso accade quando si varca la soglia del trauma disperante, non si astrae dall'artificio, rappresentato dalle riprese in soggettiva che restituiscono il punto di vista e la sofferenza di Bauby. Sottolineare che una simile chiave di rappresentazione costituisca anche la parte più incisiva significa che 'Le Scaphandre et le Papillon' ha limiti evidenti che la suggestione e un buon cast tende a nascondere ma che non può cancellare." (Natalino Buzzone, 'Il Secolo XIX', 23 maggio 2007) "Forse ci voleva proprio un regista 'occasionale' come Julian Schnabel (i suoi quadri sono più famosi dei suoi film) per affrontare un tema così ostico e anticinematografico: la degenza in ospedale di un ex caporedattore di Elle colpito da una paralisi che gli fa muovere solo la palpebra dell'occhio sinistro. Da questa storia vera poteva uscire la più melensa e ricattatoria delle operazioni, e invece 'Le Scaphandre et le papillon', non assomiglia a nessuno dei film ospedalieri fatti fino a oggi. (...) Affidato alla recitazione di Mathieu Amalric, che per metà film non si vede e per l'altra metà è immobile e deformato dalla paralisi, il film è quanto di più antispettacolare si possa immaginare, ma proprio per questo colpisce in maniera indelebile la fantasia (e l'emozione) dello spettatore." (Paolo Mereghetti, 'Corriere della Sera', 23 maggio 2007)"Siamo in piena sindrome da scafandro, scientificamente nota come locked-in syndrome. (...) Il regista newyorchese Julian Schnabel ('Basquiat', 'Before Night Falls') porta sullo schermo la vera storia di Bauby da lui stesso scritta durante la lunga malattia ed uscita in libreria tre giorni dopo la sua morte, nel 1997. Scritto in realtà è termine improprio, piuttosto dettato usando una sorta di alfabeto morse attivato dall'unica palpebra ancora in grado di reagire. (...) Utilizzando bene le possibilità del mezzo registico, con generosi slanci di fantasia, dell'avventura umana tutta in prima persona del romanzo Schnabel restituisce il possibile, riuscendo a non far cadere mai tensione e ritmo. Siamo ovviamente dalle parti del 'Mio piede sinistro' e anche di 'Mar adentro', ma con uno sforzo visivo in più. A cui si aggiungono le mirabili interpretazioni di Mathieu Amalric come Bauby e di un grande Max Von Sidow nelle vesti di suo padre. In concorso al festival di Cannes nel 2007, Lo scafandro e la farfalla ha vinto con merito la Palma d'oro per la regia." (Roberta Ronconi, 'Liberazione', 15 febbraio 2008)"Schnabel è pittore prima ancora che regista (di 'Basquiat' e 'Prima che sia notte'). E il suo talento si spinge verso forme di rappresentazione sperimentali e inconsuete. Qui con grande tatto e poeticità ci fa vedere il mondo dalla parte di Bauby, senza pietismi, senza un briciolo di ricatto, né estetico né etico." (Dario Zonta, 'L'Unità', 15 febbraio 2008)"Nominato all'Oscar per la regia, l'eccentrico pittore Julian Schnabel scommette su un soggetto poco cinematografico, la storia, ahimè vera, del mondano ex capo redattore di 'Elle' Jean-Dominique Bauby, colpito a 42 anni da un ictus che lo immobilizza. (...) Film di fenomenologia medica e pure spirituale, di guerra e pace nello spirito: l'autore fa un viaggio allucinante nella mente attiva di un uomo costretto a nuova vita fuori dal mondo, come era stato per 'E Johnny prese il fucile' di Trumbo, dove almeno c'era una causa, la guerra. Qui si gioca col destino e si soffre assai per la sensibilità del regista di Basquiat nel trattare in modo impressionista il calvario dell'immobilità vissuto da Mathieu Amalric, attore di Ioseliani ma anche prossimo cattivo di James Bond, con la misura delle grandi infelicità.." (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 15 febbraio 2008)"E' sorprendente la capacità di Julian Schnabel, artista prestato (felicemente) al cinema, di trarre dall'insidiosa materia un film coinvolgente e intenso: che ti mette ansia ma poi, in qualche modo, la sublima e ti rasserena." (Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 15 febbraio 2008)"La vicenda struggente è molto ben raccontata nel film, il migliore che Julian Schnabel abbia sinora diretto dopo essere passato dalla pittura al cinema." (Lietta Tornabuoni, 'La Stampa', 15 febbraio 2008)
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Titolo Transporter: Extreme
Titolo originale Le Transporteur Ii
Anno 2005
Regista Louis Leterrier
Durata 90
Paese FRANCIA, USA
Genere azione
Trama Frank Martin ora è a Miami, incaricato di 'trasportare' tutti i giorni a scuola il piccolo Jack Billings, figlio di un pezzo grosso della squadra antidroga. Quando il piccolo viene rapito da un malvivente che gli inietta un virus mortale, Frank inizia una lotta contro il tempo per salvare il bambino e sventare un terribile piano messo in atto dal cartello della droga per sterminare chiunque si metta sulla sua strada...Note - COREOGRAFIE SCENE DI ARTI MARZIALI: COREY YUEN.- COREOGRAFIE SCENE STUNT AUTOMOBILI: MICHEL JULIENNE.Critica "Seguito di un film del 2002, 'Transporter: Extreme' è stato scritto da Luc Besson e Robert Mark Kamen, che già avevano lavorato insieme nel primo capitolo. La regia è invece questa volta affidata a Louis Leterrier ('Danny the Dog'). Meno male, perché questo secondo episodio è decisamente più incisivo e adrenalinico del primo. 'Transporter: Extreme' è un film senza pretese, che invece dà vita a sequenze mozzafiato. Il protagonista è credibile, benché nei panni di un personaggio assolutamente improbabile. E il suo antagonista è un indovinatissimo Alessandro Gassman nel ruolo di Gianni, un efferato killer, mafioso e molto siciliano: una delle sue interpretazioni migliori. Il resto è un delirio di combattimenti, inseguimenti e macchine volanti. Ma dietro a tutto c'è la mano lunga di Luc Besson. E si vede." (Roberta Bottari, 'Il Messaggero', 25 novembre 2005)"Come sempre Hollywood batte e ribatte sull'incasso. Dopo il primo 'Transporter', da noi quasi inosservato, ecco il bis extreme in cui viene coinvolto, con strano doppiaggio, anche il cattivissimo indigeno Alessandro Gassman: suo padre, alla stessa età, a Hollywood sospirava in 'Sombrero'. (...) Action, action, action, è la poetica americana di Luc Besson che sceneggia e produce con un'inventiva ai minimi termini in cui l'autore Leterrier segue solo l'intemperante logica dell' eroe pronto a tutto, ahimè con finale promessa di un terzo round. Botte da orbi anche negli studi medici e lotta sottomarina con aereo in picchiata: di tutto, di più, di troppo, al solito." (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 26 novembre 2005)"Il primo 'Transporter' era un serie B neanche malvagio. Col seguito, che in America ha incassato qualcosa come 40 milioni di dollari, andiamo peggio: praticamente il film svanisce lasciando, la suo posto, un catalogo di combattimenti, inseguimenti, acrobazie cuciti col filo bianco di una storia che più banale non si può. (...) I botti e i fuochi d'artificio cercano di distrarti dall'abissale vacuità del tutto e anche la parte strettamente linguistica (inquadrature, montaggio, raccordi) è trascurata e sgrammaticata. Restano gli effetti al computer e le scene di scontro fisico, coreografate da Corey Yuen. Tanto vale giocare ai videogame." (Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 2 dicembre 2005)